Giardini La Mortella, il recital di Madre Natura
Giardini La Mortella, il recital di Madre Natura
DI CIRO CENATIEMPO
Il tour nella bellezza ischitana che caratterizza il nostro giornale, fa tappa ai Giardini La Mortella. Nel maggio del 2004 fu giudicato il più bel parco d’Italia da Briggs & Stratton. Nel 2010, quando morì lady Susana Gil Paso, l’ideatrice e curatrice di quest’oasi tropicomediterranea che è stata declinata, legata e coniugata in (e con) tutti i sensi alla musica del marito compositore, sir William Walton, scrissi che con lei spariva «il fiore per antonomasia, quello più originale, eccentrico ed elegante». Restava però il trionfale contesto, il vitale slancio verso il futuro di una eredità magnifica fatta «di migliaia di specie arboree, rare e preziose, nel giardino perfetto come uno spartito». E non solo.
Grazie ad Alessandra Vinciguerra, direttrice del sito e presidente della Fondazione Walton cui fa riferimento la proprietà; e a Lina Tufano, che cura gli eventi musicali, quest’idea di perfezione, di brillante umanesimo progettuale e organizzativo continua a distillare la fascinazione con potenza immutata. E Madre Natura, con il suo respiro femminile e maschile insieme, si esalta e ci avvolge come la protagonista straordinaria di una sorta di recital annuale dedicato al piacere godibile. Da ricercare e condividere. Qui l’atmosfera è appunto di una piacevolezza mutevole e sorprendente. Ed è ormai una certezza: è un inno alla complessità e alla spontaneità controllate dall’intelligenza. La ricerca dell’originalità e dell’unicità si irradia tra la disciplina architettonica della Mortella e l’esuberanza del paesaggio, in un alternarsi di british aplomb e incursioni pop insulari e vulcaniche; tra pentagramma classico, sperimentazioni e jam-session. Mi pare un libretto d’opera, a tratti, farcito da contaminazioni, colori e sonorità virtuose; standard e variazioni sul tema. Le forme dell’acqua, di piante, radici, ombre, luci, voli e voliere, scrosci e vapore si rincorrono tra i tasti bianchi e neri del piano, le vibrazioni degli archi, le pulsioni dei fiati e degli ottoni, l’ansia di un performer solista; il batticuore di un’orchestra; gli applausi e gli oohh di meraviglia al termine di un’esecuzione magistrale. C’è un rigore esemplare anche quando le improvvisazioni si moltiplicano tra le felci e le ninfee, l’acustica del teatro greco; le meditazioni orientali, i tramonti nella lecceta, proprio quando il picchio verde smette il ti-ti-titoc profano che sfida l’imperturbabilità ed evoca le ripetute citazioni della memoria artistica che si trasformano, perciò, in eccitazioni controllate. Mai scontate, però. E, come le macchioline della felicità, sono contagiose.
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