Ischia da bere, sorsi e discorsi d'amore
Dieci anni fa, nel 2006, andrea d’ambra pubblicò un volume ormai introvabile, “Storia del vino d’Ischia. La viticoltura nell’isola verde dai greci a Salvatore d’ambra” (in collaborazione con antonella monaco), per celebrare i 40 anni trascorsi dalla certificazione di denominazione d’origine controllata attribuita ai vini di Ischia.
Per quel libro scrissi un’accorata postfazione. dieci anni dopo, sono convinto che il mezzo secolo compiuto dalla doc, meriti almeno la copertina. e, soprattutto, la ripresa di quel discorso. Il motivo è presto detto. L’unico discorso possibile sulla contemporaneità e i tempi nostri, è il discorso sul vino. Perché parla di noi. e noi parliamo del vino, quando stiamo per versarlo nel bicchiere. Questa “parola vinosa” è il risultato di una delle più grandi rivoluzioni planetarie: nell’arco di poco più di cento anni, in particolare negli ultimi trenta, il vino è diventato soggetto culturale universale. e non ha perduto la sua connotazione giustamente alcolica, l’euforica identità che aveva posizionato il vino ai vertici della scala dei miti, e delle tradizioni più o meno inventate che sono all’apice della civiltà mediterranea. del resto, se lo beviamo, parliamo di più.
Scioglie la lingua, vero? ma occorrono regole precise e capacità intellettuali, creative (penso un po’ anche al Simposio di Platone), per esprimersi e vivere la vita in comune in modo appropriato. oggi come tremila anni fa. Perché, come allora, il vino è ricco di significati potenti. La consapevolezza produttiva fondata su qualità, territori e umanità coinvolta nel contesto socio-economico, ci permette di dimenticare le vicende quantitative che ne avevano ignorato le virtù. ora ci viene offerta la possibilità di riannodare la storia intorno ai suoi capisaldi enoici, a patto di aggirare le banalizzazioni. In principio era il vino (insieme a poche altre “cose”), e lo è ancora. Le uve selvatiche erano già trasformate nel tardo neolitico a dikili tash, nella macedonia orientale, ma è nell’avvio dell’età del bronzo che la domesticazione della vite si diffuse in Grecia. “Vino” è un termine che deriva dal sanscrito “vena”, che scaturisce a sua volta da una radice proto-indoeuropea: *win-o-. “Vena” significa “amare”: l’origine di Venus, Venere è la stessa. mi fermo qui con le etimologie. torniamo a Venere e alla Grecia. cioè a noi.
Prendendo ad esempio l’icona assoluta, la coppa di nestore. Per me è un manufatto da sdrammatizzare, liberare dalla polvere museale, trasformandolo per gioco – finalmente! – in un duplicato in versione Pop art, come propongo nell’elaborazione grafica qui sotto. comunque, su quella “kotyle” importata da rodi fu inciso, graffiando la superficie della tazza, un epigramma in tre versi dedicato post-mortem a un ragazzo, che lega il potere del vino alla forza del desiderio d’amore e di afrodite, cioè Venere: è la prima poesia tramandata come atto di scrittura alfabetica, in un periodo coevo alla composizione dell’Iliade omerica. accadeva nell’ottavo secolo avanti cristo, nella prima colonia greca del mediterraneo occidentale, abitata da uomini, donne e vigneti: Pithecusa, ovvero Ischia. dove scrittura, parola, vino, venere e amore possono continuare ad essere la stessa, unica “cosa”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA