Le uova colorate di Pasqua e il gioco del "Tozza tozza"
Noi bambini e giovanotti,al primo tepore della “bella stagione”, per prima cosa toglievamo calzari e caluosci (zoccoli di legno e cuoio) e, i più fortunati, scarpe o scarpette Superga, per camminare scalzi sui lastroni di pietra lavica già tiepida. Nelle tasche del pantaloncino corto, c’erano due cose necessarie, anzi, indispensabili per quei tempi... Uno era l’onni_ presente strummolo (la trottolina con lo spago) e l’altro era il tiramolla (la fionda). Quest’ultimo serviva per insidiare le lucertole e, con scarsissimo successo, piccoli volatili migratori che saltellavano confidenti di pianta in pianta. Prima della domenica delle Palme invece, in tutte le case, le nonne e le mamme preparavano le uova tinte di rosso, facendole bollire con coloranti naturali, radici o altro. Le “uova rosse” erano l’istantanea preda di noi bambini e ragazzi, maschietti e femminucce. Felici, col nostro uovo in mano, giocavamo, per ore intere, in spazi che profumavano di primavera e di libertà. Giocavamo a Tozza tozza. «Quando le signorine Buonocore ci mettevano in cerchio per insegnarci ora il Vangelo, il
catechismo o il più melenso (solo per le bambine) “comportamento delle buone maniere”, c’era sempre il buontempone di turno che interveniva», ricorda la mia amica Odette Del Dotto. «Signurì, a me, mi ha detto Barbone, che il fatto di tingere le uova rosse rosse, non è una cosa di Gesù, ma appartiene alla storia pagana. Le uova rosse sono-per-la-fertilità-della-terra!». Quella volta Giuvanniello fu sfortunato, in quanto cianciò a tiro del parroco, Don Pasquale, che lo tirò a sé alzandolo di peso per un orecchio e, mettendolo ginocchioni sulle lenticchie sparse sulla pedana del confessionale, gli ordinò dieci Gloria al Padre e dieci Ave Maria. Prima e dopo la guerra, a Ischia, c’erano due modi di giocare a Tozza tozza. I più grandicelli si sfidavano a due alla volta: tenevano l’uovo serrato in una mano con la punta rivolta verso l’alto e lo battevano leggermente con quello dello sfidante. Chi ne usciva con la punta dell’uovo ammaccata, aveva perso... l’uovo. Un mese prima delle gare, sceglievamo le galline che facevano un uovo più piccolo, comunque regolamentare. Poi cominciavamo a ingozzarle con pezzettini di intonaco, cocci di guscio delle loro stesse uova, cipolle e scorze cotte di legumi. Le galline più ricercate erano di una razza marrone e grande, e l’uovo migliore era già un po’ più scuro; mai e poi mai bianco. Per la bollitura era tassativo mettere, in un pentolino stretto e alto, a misura, l’uovo con la sua punta a testa in giù, così l’aria contenuta al suo interno saliva verso il lato opposto, quello più largo, quello che non doveva cocciare. Anche il vincitore alla fine doveva finire di rompere, sbucciare e mangiare l’uovo. Solo così dimostrava di non aver imbrogliato. Si giocava in casa o in… trasferta. Quelli più piccoli invece si cimentavano nel Tozza tozza a... terra. Giocavano spesso nello slargo dietro alla Foce del porto, a Ischia Ponte o giù alla Marina. Lì c‘erano le piste migliori, che venivano accuratamente spazzate, quasi spolverate. Non ci doveva essere nemmeno un piccolo sassolino. Le uova dovevano essere regolari e arrotondate perché dovevano ruzzolare meglio possibile. Si sceglieva uno slargo con una pista di massimo due metri di lunghezza e leggermente in pendenza. Ognuno dei partecipanti appoggiava un “soldo”, o un doppio soldo sul proprio uovo sodo. I bambini, a turno lasciavano scivolare e caracollare buffamente l’uovo lungo il dolce pendio. Quando il loro uovo personalizzato, variopinto e numerato, cozzava l’altro uovo che aveva la moneta appoggiata sopra, si appropriavano del soldo che cadeva a terra. Comunque, vittorioso o no, l’uovo si lesionava e alla fine si rompeva. Lo si portava a casa e si cominciava a piagnucolare per averne un altro per giocare spensierati il giorno appresso. Per tutto il giorno... Il rito della colorazione delle uova era un po’ diverso da famiglia e famiglia. Probabilmente il metodo arcaico, più antico e più usato è stato quello di colorarlo con le radici fresche della velenosa rubia, che noi chiamiamo ‘a ruva. Dopo aver trovato la pianta la si estirpava con tutte le radici. Poi a casa, le sole radici, si pulivano dalla terra, si sciacquavano con attenzione, si pestavano leggermente e si mettevano a bollire. Raffreddato l’infuso si aggiungevano le uova e si rimettevano bollire a fuoco lentissimo, insieme a poco aceto rosso e una “presa di sale” che serviva per non far lesionare l’uovo durante la bollitura, per non più di 15 minuti, pena la tossicità del tutto! Ma, dopo una leggenda, vera o falsa, anche sull’isola le uova si tingono in più modi. Almeno dal 1787! Ecco la storia. Un bel giorno, Re Ferdinando IV di Borbone chiamò a sé il protomedico Don Francesco Buonocore e gli propose: «Mio caro amico, per la Pasqua, vorrei indire una gara perchi tinge meglio delle belle uova, tutte colorate. Se la vincitrice sarà una donna gli doneremo un baule con un intero corredo da sposa. Se vincerà un uomo, non lo so..., non so cosa potremmo dargli in premio...». «Maestà, la metà della popolazione mascolina, in modo consentito o meno, è pazza per la caccia agli uccelli e ai lepri. Diamo al vincitore la possibilità di cacciare, con la balestra, le folaghe nel vostro lago!», rispose il medico, confidente e ruffiano del Re. «Ben detto! Sia scritto e sia fatto», chiosò ordinando il Sovrano... Ci fu da subito un’agitazione pazzesca, uno scompiglio generale in tutto il comprensorio e, ogni famiglia, povera o benestante, si mise a provare e riprovare. Nel giro di tre giorni non si trovava un uovo neppure per la frittata del re! Dopo estenuanti selezioni furono scelte tre sole uova. Va detto che un figuro rischiò la pelle in quanto voleva propinare al re un uovo di un rosso carminio bellissimo, fiammante; alla fine dovette confessare di averlo tenuto per ben due ore nella rubia, l’aceto, le bacche di mirto e un drappo di stoffa color porpora di provenienza sconosciuta. Era la Domenica delle Palme. Tra rami di olivi agitati festosamente e “palme” bianchissime e intrecciate, tra battute di chiassosi tamburelli e scampanii di campanelli, fischi e svolazzi, ecco che, i prescelti, timorosi e speranzosi allo stesso tempo, si apprestavano a presentare il loro uovo al Re. La scena si svolse al Casino Reale: annunciato da dieci grevi battute di tamburo, il primo uovo fu presentato al Re; era di un contadino di Piedimonte che lo aveva tinto solo con le radici della rubia. Aveva un bel colore rosso chiaro e ambrato. Secondo uovo. Una florida contadinella di Forio colpì il Re subito, appena varcò la soglia di marmo che dava nella lunghissima sala. E sicuramente prima di apprezzare e valutare l’uovo che portava nel grembiule. La ragazza, fasciata da una tunica lunga fino ai piedi scalzi, era stretta in vita da una fascia gialla che lasciava immaginare, anzi accentuava, fianchi giunonici. Aveva si e no vent’anni, occhi nerissimi e infuocati e un incarnato olivastro e vellutato. Questo bellissimo uovo era stato bollito per venti minuti insieme a bacche e foglie di mirto, un pizzico di sale, un po’ di aceto rosso, corteccia di cannella, foglie di cavolo viola e foglie di amarena. Ne uscì fuori uno spettacolare uovo blu cobalto. Il terzo e ultimo uovo giunse, lentissimamente, al cospetto del Re adagiato su di un cencio di canapa bianco. Era di un rosso fuoco e splendeva, come luccicasse, riflettendo tutti gli orpelli appesi alle pareti. «Tu!! Come lo hai fatto?», domandò col suo vocione il Re. Il giovane Anilluccio, vignaiolo della zona del Mandarino, anche lui scalzo, inginocchiandosi, occhi a terra e facendo comunque massima attenzione all’uovo, rispose con un filo di voce: «Sua Maestà Eccellentissima, ho messo nell’acqua fredda l’uovo, le scorze e la polpa di una cipolla rossa, una tazza di aceto rosso e l’ho fatto bollire, piano piano, per due clessidre. L’ho fatto raffreddare e dopo l’ho lucidato piano piano con un panno di lana ingrassato con la sugna di Don Simeone». «Quando a San Martino si aprirà la caccia alle folaghe fate venire anche questo popolano», sentenziò il Re con enfasi appropriandosi dell’uovo. Con un cenno chiamò vicino a se il protomedico e piano, in un orecchio: «Fai venire alla nostra tavola la contadinella di Forio... anche senza l’uovo», gli ordinò il Re. Senza aggiungere altro, il Re si avviò nell’immensa sala da pranzo dove, sotto le luci dei due grandi lampadari, sul tavolo da cerimonia, lo attendeva una delle sue pietanze preferite: una quantità di enormi e pasciute triglie pescate nel suo lago e strafritte nel lardo di maiale. Al giorno d’oggi, anche da noi, le uova si tingono e si decorano, sode o no, nei modi più variegati e più fantasiosi. Il sistema che garantisce un colore tra il giallo oro e l’arancione carico è quello di bollire l’uovo insieme allo zafferano, un chiodo di garofano, le bucce delle cipolle bionde di Forio, un cucchiaio di aceto e, alla fine, di lucidarlo bene bene con dell’olio extra vergine. Un altro è quello di sobollirlo insieme a qualche tazza di caffè scuro che colora le uova di un bel marrone ambrato. Ad ogni buon conto in ogni casa ischitana c’è la preparazione di famiglia che è, fuori da ogni dubbio, la “ricetta” migliore...