Il mare in bocca canocchie e pannocchie
Il freddo non intorpidisce i miei piedi, né mi rallenta nell’incedere verso il borgo: sono in missione per conto del signore e a dicembre, poco prima della venuta dell’inverno, mi appresto a fare la spesa verso le sette e trenta di un mattino rigoglioso. Non voglio attendere in fila per soddisfare la brama e l’appetito che, con il freddo, aumentano. I colori che accolgono il mio respiro caldo sono di un rosso addensato tra le nuvole all’orizzonte.
L’aria è nitida e, questo rituale, mi prepara davvero bene al Natale che verrà, al senso di famiglia, quello che manca, ai ricordi: «Aggia fa ‘a spesa!». Per strada si percepisce un ritmo diverso, sembra che il tempo a disposizione stia finendo, per cui ho l’impressione che la gente sia in attesa di un qualcosa di particolare.
Vado per botteghe, oggi non visiterò i grandi supermercati. So cosa comprare, ma voglio anche lasciarmi sorprendere dai prodotti stagionali che, in questo periodo dell’anno, parlano un’altra lingua. Sapete perché? Perché il pomodoro, orfano della pianta che lo genera, si ritrova appeso tra le affascinanti pagliarelle delle botteghe. Insieme ad essi anche l’aglio, intrecciato a dovere, e poi i tanti peperoncini rossi e piccanti che in questo periodo colorano, come prime donne, gli orti della nostra bella isola. Insomma i prodotti sono apparentemente sempre gli stessi ma, conservati in questo modo, fuori dal loro habitat naturale, parlano un’altra lingua, ossia parlano a un’altra lingua, a un altro palato, perché hanno mutato i loro sapori. Anche il baccalà e lo stoccafisso, insomma, erano pesci una volta, adesso invece sono mutati, hanno vissuto una bella metamorfosi. BUONO COME IL PANE Chi fa la spesa sa bene che la prima cosa che non va dimenticata è il pane. Un panello di un chilo lo faccio mettere da parte, ogni giorno. Il fornaio, lo vedo spesso all’una di notte che prepara, che inforna. Il profumo del pane è come un flauto dal suono ammaliante, mi attira alla porta della bottega. Giuseppe, il panettiere, l’altro giorno mi diceva che stava ricordando come le cose erano cambiate in questi ultimi anni, che non era più necessario raccogliere la legna come prima, che in passato le ore del giorno e della notte non gli bastavano. Giuseppe – detto Peppeniello – esclama spesso: «Il pane si fa la notte e la mattina è già finito!». Oggi, invece, con l’ausilio dei forni elettrici e delle impastatrici, la cosa è più spedita, ma il mestiere resta sempre relegato alla notte. Il pane è sinonimo di bontà, di generosità e di scambio. La bottega è sempre la stessa: gli scaffali sono vecchi, scuri, come un pezzo di pane ben cotto; la farina corre nell’aria per arrivare ai polmoni. Prima di incartarmi il pane, Giuseppe è solito dargli sempre una bella pacca, così la farina vola nell’aria e il suo profumo si propaga tra la gente che attende; la carta è marrone, grezza e sa di casa, di chi lo abbraccia e lo porta sotto il braccio per posarlo sulla tavola dell’amore. ‘O FRUTTAJOULE La seconda tappa è da Gennarino, il fruttivendolo. Lui non è un fruttivendolo qualsiasi. Da lui in questo dicembre non sentirai odore di verdure, né di pesche estive. Lo stoccafisso, nelle spaselle ricolme d’acqua, diffonde meglio di ogni altra cosa il freddo profumo di una zuppa alla procidana. Al suo fianco regna la scarola riccia che, meglio di tutte le altre, esprime il senso conviviale quando viene turciuta, cunciata, insieme ai sott’oli, ai pomodori secchi e all’olio d’oliva. Ne chiedo subito il prezzo: «A quanto ‘stu stocche?». Gennarino mi guarda, non dice nulla e mi mette un generoso pezzo in un bel cuoppo di carta rigida bianca. Poi lo pesa sulla bilancia e dice: «Fa’ sedici euro tutte cose!» e, mentre lo infila nella borsa, prende subito una bella “cape ‘e laccia” e me la regala: «Cheste ci vo’, è a morta soja! Ddoie pummarullelle ‘e piennolo a inde e… va annanze ‘o Re!». Il re sono io, che cammino sui basoli, con il sole freddo che mi fa chiudere gli occhi, con la seconda busta di carta in mano nella quale una scella di stoccafisso da fare alla procidana mi fa volare al pensiero di questa sera, a mia moglie. ‘A CHIANCA Fa freddo, circa otto gradi qui, che in altre località del nord Europa rappresenterebbe una temperatura primaverile. A otto gradi, quando il respiro si fa vedere a mo’ di nebbiolina davanti alla bocca, significa che è arrivato il freddo. Affretto il passo allora e supero quel gruppo di case cui i panni stesi sul balcone disegnano la vera tradizione dei luoghi del Sud, negandomi alla luce del sole. Mi ritrovo poco dopo la chiesa che, sebbene curi le faccende dello spirito, in questo caso si fa teatro di un luogo fatato: ‘a chianca. Lo sappiamo tutti che questa parola indica la macelleria e che in lei si nasconde il latino di planca (tavolo), ossia quella superficie dove prima si poggiavano le carni che, giustamente, l’acquirente poteva osservare prima di comprare. Pasquale sa che a dicembre, quando vado il sabato mattina, voglio solo una cosa: “quatte cape ‘e sausicce”. I “friarielli” son stati cotti già prima di uscire, tirati al vino bianco, amari quanto basta, con un dolce retrogusto di nostalgia. Attendono di incontrare ‘e sausicce tagliate a punta di coltello. Pasquale allunga la mano nella vetrina, dove gli stessi sono avvolti come una ghirlanda intrisa di vizi e pregiudizi per i vegetariani. Li tira fuori, allungando la mano oltre la sua testa come una lenza calata a fondo che disegna una tensione di cattura e, con un taglio netto, ne separa sei. Lo guardo per rimproveralo, ma mi anticipa e dice: «Domani è domenica! Secondo te nu’ poche ‘e sarzurella, ddoje tracchiulelle e quatt’ purpette, nun sa’ chiammene na cape ‘e sausicce vicine?». Che gli posso dire. Ha ragione! ‘O PISCIAVINNULE La tappa è obbligatoria, da Adolfo, oggi che non ho trovato i pescatori al molo. Vado da lui a vedere cosa il mare mi consiglia. Questo momento è sacro, quello più importante della mia spesa perché mi regala l’inatteso. Solo un pazzo, infatti, andrebbe da un pescivendolo, sapendo cosa vuole. Il mare non è uno scaffale, non è Amazon, anzi è un calderone di misteri incredibili, di infinite emozioni legate alle stagioni. Dicembre, porta con sé mille magie. Adolfo è sempre fuori alla sua bottega, con gli stivali e una giacca antivento verde, anzi sempreverde, pronto come sembra all’ultima apocalisse. Piegato, ricurvo, proteso verso i banchi sui quali sistema il pescato con cura. La bottega si trova proprio al centro del borgo ed è aperta fino all’una, non oltre. Tra gli archi maldestri delle case e i panni stesi del borgo, tra quelle tinte pastello che come fari in tempesta accendono le coste per i naviganti, entro e dico buongiorno. Nessuna risposta. Guardo il banco e incontro la visione celestiale che mi riporta indietro di tanti inverni. Sono loro, le canocchie, dette qui le cicarelle. Le amo! Tra tutti i crostacei sono per me quelli che hanno il sapore più tipico dell’inverno, speciale, senza eguali. Non ho bisogno di pensarci due volte. Loro si muovono freneticamene nella cassetta e io,altrettanto freneticamente, mi muovo verso di loro: è una danza d’amore. Dico solo una parola, indicandole: «Un chilo!». Vado a casa e le preparo come lo hanno sempre fatto per me: olio, aglio, peperoncino e pomodori di pendolo. Le labbra sono già pronte a farsi del male – le canocchie con la loro corazza sono sempre taglienti e intrise di sughi e sapori unici – per accogliere quegli scrigni di un sapore passato. Meno di mezz’ora e sono pronte. Il profumo offusca la ragione, hanno vinto su tutto, ho cambiato i miei piani. «’E cicarelle, tra tutte ‘e pisce, so’ ‘e chhiù belle!».