Il sapore dell'isola di una volta
Ho scoperto questo libro da ragazza, nella biblioteca ischitana di mia cugina Vera Menegazzi Malcovati, presso cui venivo a passare le vacanze. Me ne sono subito innamorata: i miei studi d’inglese erano ancora agli inizi e facevo fatica a leggerlo, ma mi sono ripromessa di tradurlo non appena ne fossi stata in grado. La traduzione ha richiesto parecchio tempo, vuoi perche mi ci dedicavo a tempo perso (nel frattempo mi sono sposata,
ho avuto due figli e ho sempre lavorato), vuoi perché, quando prendevo il libro in mano, la sua freschezza e capacità di restituirmi l’isola in tutti i suoi aspetti, mi faceva veniva una tale nostalgia d’Ischia che non riuscivo a proseguire. Quando mi sono trasferita qui, ho potuto aggiungere piacere a piacere, perché, oltre a divertirmi con la traduzione, ho indagato con tutti gli strumenti possibili sugli autori e sui luoghi e i tempi del racconto, identificandone l’anno preciso (il 1930), l’albergo degli sposi al porto, abbattuto quando è stata aperta via Alfredo De Luca (e ne ho ritrovato le foto) e la casa da loro abitata per quasi un anno. (l’Araucaria, a Punta Molino, affittata una decina di anni dopo da Luchino Visconti). E, grazie a internet, ho potuto anche scoprire qualche cosa della loro vita dopo Ischia: il soggiorno a Roma, annunciato alla fine del libro, si è prolungato almeno per tutto l’anno successivo, visto che il loro primo figlio, John, è nato nella Capitale nel giugno del 1932. Si sono poi trasferiti negli Stati Uniti, a Putney, nel Vermont, dove Geoffrey è morto nel 1956. Kit invece è venuta a mancare nel dicembre 1981, in Arizona. Le ricerche continuano…Volevo offrire a ischitani e ospiti un libro in grado da un lato di restituire il sapore dell’isola com’era una volta, dall’altro di far conoscere e apprezzare il carattere aperto e generoso degli isolani che, nonostante le apparenze, non e’mutato: dai tanti commenti positivi che ho ricevuto, direi che ci sono riuscita.
L’isola nel sole
di Geoffrey e Kit Bret HartE
CAPITOLO XV
Siamo stati spesso a mangiare a Barano, dai nostri buoni amici, i Giusto. Che pranzi! “Mama mia!”, come dicono gli ischitani. Come siamo riusciti a sopravvivere? Li abbiamo seriamente implorati di non uccidere il vitello grasso per noi, e questo lo hanno promesso, ma, come ha spiegato Cesare, le sue sorelle non potranno mai convincersi del fatto che gli inglesi e gli americani mangiano varie volte al giorno a intervalli frequenti e di conseguenza non hanno mai troppo appetito, mentre gli ischitani hanno un solo vero pasto, a mezzogiorno. Noi abbiamo sostenuto che anche il nostro pasto principale è a metà giornata, ma un esame incrociato e ravvicinato da parte di Cesare ha evidenziato che, oltre a quello, mangiamo una colazione tardiva e scandalosamente ricca, un abbondante tè, e una cena che è tutto tranne che simbolica.I Giusto, da parte loro, si alzano alle quattro del mattino o, se hanno fatto tardi la sera prima, alle quattro e mezza, e, dopo una tazza di caffè nero e una pesca, si dedicano alle varie occupazioni fino al pranzo delle dodici. Tra questo e l’ora di andare a letto non mangiano altro, a parte una cena leggera a base di pane e formaggio innaffiati con un bicchiere di vino. È quindi comprensibile che questa colazione a metà giornata non sia un’occasione per giocare con il cibo, ma un pranzo completo, preparato da quell’eccellente cuoca che era la Signorina Margherita, la sorella maggiore. E che pranzo! Quando andavamo a Barano saltavamo la prima colazione, nella vana speranza di riuscire ad affrontarlo, ma era tutto inutile, come una goccia d’acqua nel mare. Inoltre, dopo la nostra prima esperienza, davamo sempre il giorno libero a Dominica, sapendo bene che al nostro ritorno non saremmo stati in grado di affrontare alcun cibo e con la sensazione che non avremmo mai più richiesto i suoi servigi in futuro. Non è che arrivassimo senza appetito, al contrario: il digiuno, il viaggio e l’aria rinvigorente delle colline ci facevano giungere a tavola con una bella fame. È che, semplicemente, non possedevamo lo spazio fisico per immagazzinare una tale montagna di cibo. Fin dall’inizio, tutto ci tentava, per portarci verso la distruzione gastrica. La maestosa sala da pranzo, con il suo bel soffitto a volta e le sue alte vetrate nei muri incredibilmente spessi, era deliziosamente fresca; la tovaglia era immacolata e la tavola ben apparecchiata e soprattutto gli odori saporiti emanati dalla vicina cucina mettevano a dura prova la nostra prudenza.Dopo che la Signora Giusto aveva reso grazie, Cesare cominciava a stappare le bottiglie; prima un po’ di vino semplice (parole sue, non nostre), da bere con gli antipasti. Questo piatto preliminare consisteva in prosciutto crudo e cotto, aringhe e acciughe marinate, peperoncini e capperi, pane e burro fatti in casa. Dal modo in cui iniziavamo a divorare quelle cose eccellenti, si sarebbe potuto pensare che costituissero la parte principale del pasto, e che non ne fossero semplicemente solo il preludio. Cesare, con la sua nativa cortesia, ci invitava a servirci di nuovo e, quando rifiutavamo, esclamava: “Non avete mangiato nulla!” e tutta la famiglia ci guardava in modo inespressivo, colpita dalla nostra mancanza di appetito. Le cose cominciavano a diventare serie con la comparsa di una fumante zuppiera di minestra, un saporito e corposo estratto d’innumerevoli e, ahimè, altamente sostanziosi ingredienti, il cui segreto era conosciuto unicamente dalla Signorina Margherita. Questo a sua volta cedeva il posto a una pantagruelica terrina di ricca, cremosa pasta fatta in casa, accompagnata o da uno stuzzicante sugo di carne o da uno preparato con pomodori essiccati al sole. A questo punto Cesare presentava “un’altra piccola bottiglia”. Quel piatto era sempre per noi l’inizio della disfatta, anche perché era così ingannevolmente innocente: scivolava con modi insinuanti giù per la gola ma, una volta al sicuro, assumeva, come il lupo di Cappuccetto Rosso, proporzioni terrificanti. Ci sentivamo astronomicamente paralizzati, pure era il momento in cui dovevamo essere più che mai vigili perché la Signorina Margherita, o sua sorella, approfittando di alcune nostre imprudenti osservazioni sulla bellezza sorrisi feroci Ed era inutile implorare l’intervento di Cesare, perché lui, nel frattempo, era scomparso alla ricerca di altre bottiglie. Era sempre estremamente serio a proposito delle proprietà medicinali dei suoi vini, anche se la sua modestia gli impediva di commentarne l’eccellenza. Questa volta si trattava di vino rosso, più forte e migliore delle annate precedenti. Doveva pulire i visceri, arricchire il sangue e far bene allo stomaco, e contro questo nuovo riempimento di bicchieri c’era la stessa possibilità d’appello che per la seconda porzione di pasta. Portare avanti una conversazione in italiano dopo tutte queste libagioni -solo Cesare parlava inglese – era estremamente difficile, ma non c’era comunque tempo per parlare, perché faceva il suo ingresso il piatto principale del pranzo. Poteva trattarsi di un giovane capretto, arrostito in modo perfetto, o di uno di quei giganteschi conigli rinomati per il loro gusto delicato e, ovviamente, circondati da una gran varietà di verdure. A questo punto, ormai, Kit era ridotta al silenzio. Gli angoli della bocca le si contraevano in un sorriso automatico ogni volta che qualcuno si rivolgeva a lei, ma gli occhi erano vitrei e la sua mano cercava la mia sotto il tavolo per una stretta d’incoraggiamento. Lentamente, eroicamente, si ingozzava, aiutata unicamente dalla vaga capacità lenitiva dei vini del nostro ospite. Ora, pensavamo, potevano esserci solo i formaggi e la frutta e, secondo il modo di vedere ischitano, non si era obbligati a mangiarli, ma l’illusione era svanita fin dalla nostra prima visita. Poteva trattarsi di una bianca Livorno, una rossa Rhode Island o di una Plymouth Rock – un brutto nome per qualcosa di così tenero -; forse si trattava di una semplice gallina nativa, senza pedigree e ben ingrassata, ma comunque pollo era. Non avrei mai pensato di poter guardare in modo così freddo qualcosa di così delizioso. Mi sentivo balbettare ipocrite esclamazioni di piacere frammischiate da abbiette parole di rincrescimento e scusa, dichiarazioni menzognere di essere sotto cure mediche e a dieta stretta. La famiglia le cancellava rapidamente affermando che il pollo era molto leggero – il che di per sé era vero – e che era, in questo caso, molto indicato. Oh, no, non era per nulla “indicato”. Molto più indicata sarebbe stata una barella che ci portasse entrambi sotto l’ombra di un albero, a recuperare. Per rendere le cose ancora più serie, tutti i pezzi migliori venivano ammassati sui nostri piatti. Rifiutavamo i formaggi e la frutta con aria imperturbabile, ma quando la vecchia Signora Giusto si alzava da tavola e scompariva in un’altra stanza per ritornare con un dolce che aveva fatto con le sue mani, sapevamo che in qualche modo, da qualche parte, dovevamo trovare ancora un po’ di spazio. Sembrava – ed era – delizioso; pure, al pari di Kit sempre più pallida, sentivo che era un vero peccato non poter gentilmente chiedere che ce lo incartassero in modo da portacelo a casa e gustarcelo con calma nei giorni uccessivi. A questo punto Cesare inclinava la sedia all’indietro e dal tavolino di servizio afferrava agilmente una bottiglia coperta di ragnatele, che era stata tirata fuori alla luce del giorno dopo essere maturata per quasi mezzo secolo in un angolo oscuro di una delle sue numerose cantine. Ci aveva confessato che ne erano rimaste poche di quelle bottiglie, perché quel vino era stato messo via da suo padre prima della sua nascita: stappando per noi uno di quei rari tesori, egli non solo compiva un gesto di grande ospitalità, ma tributava un singolare complimento ai nostri palati. Il vino aveva un colore più ramato che rosso, e le sue qualità medicinali elencate dal nostro ospite sarebbero state sufficienti a rendere famosa anche una fontana. A quella vista Kit si risvegliava di colpo; i vecchi lupi di mare del New England presenti nel suo sangue si ergevano bramosi per l’occasione. Avevano navigato i sette mari e, oltre a essere ottimi conoscitori del rum giamaicano - cosa che Kit, per fortuna, non è -, possedevano indubbiamente un’adeguata capacità di apprezzamento per l’eccellenza dei vini mediterranei. E quello, ricco come un cordiale, maturato con gli anni, aveva innegabilmente alcune delle qualità salvavita che Cesare gli attribuiva. A ciascuno dei nostri pranzi a Barano, una bottiglia di questo tipo faceva la sua comparsa come gran finale.A questo punto la famiglia si ritirava, lasciandoci con il nostro ospite che invariabilmente ci offriva l’opzione di una siesta sul letto matrimoniale o quattro passi tra le vigne. Il primo era più allettante, ma sapevamo che se avessimo ceduto e posato la testa su uno di quei guanciali così opportunamente ricamati con Buon Riposo, ci sarebbe voluta molta più forza di volontà di quanta non ne possedessimo per alzarci di nuovo quando fosse arrivata l’ora di tornare a casa. Sceglievamo quindi le vigne, sedendoci spesso sulle prode erbose e ombrose con la scusa di ammirare il panorama…