Antonio Macrì, elogio dell'armonia cromatica
di Ciro Cenatiempo
Una straripante folla di amici, estimatori, conoscenti, persone semplici si è radunata – una domenica dello scorso febbraio - nella chiesa di Portosalvo a Ischia, per condividere la commozione sincera del saluto ad Antonio Macrì, ultimo interprete di una fortunata e speciale generazione di artisti che si sono fatti apprezzare e amare lontano dai confini di Ischia.
Pittore popolare, uomo schivo. In questa apparente dicotomia c’è la summa di Antonio e del suo istinto talentuoso self-made che, affinandosi e perfezionandosi; e aggirando manierismi di scuola e accademismi, ha lasciato una traccia lunghissima, distribuita e abitata in un’infinità di collezioni private.
Impregnata di richiami alle sensibilità di ’800 e ‘900; stuzzicata dalle avanguardie e dalle maggiori espressioni di naïveté locale e internazionale; distaccata ma non rinunciataria verso le magistrali frequentazioni di personalità famose che hanno avvolto l’isola nel secolo scorso, l’opera di Macrì è il risultato di un rapporto con la creatività che è stato totalizzante per oltre 64 dei suoi 84 anni di vita. E lui ha continuato a chiedere i pennelli, a stringere una matita, a immaginare una mescolanza di tinte, anche quando era prossimo ai titoli di coda.
Figlia di una riservatezza esemplare, la sintesi della sua produzione proteiforme è sciorinata in diversi periodi espressivi che, passando tra le stilizzazioni delle origini, le folgorazioni intermedie, fino alle complesse meditazioni della maturità, sembrano a volte essere consapevolmente agli antipodi, nell’ansia sottile di esprimere un’orgogliosa e umile originalità. Molto di tutto ciò è ora ospitato anche nel suo studio.
È una vivacissima galleria-atelier. Nel contesto ordinato e pluristratificato di tele antiche o grezze; oli composti su supporti più moderni; cellulosa compressa in spessori da album e finissime carte dipinte; pezzi tematici o materici; disegni, bozzetti, frammenti di fasi e tecniche; dediche, articoli, note critiche alle pareti, campeggia un autoritratto da giovane relativo alla fase in cui Antonio si dedicò pure al teatro, stimma di una personalità generosa.
Il contesto mi appare come un inno indotto al Feng Shui, all’affermazione dell’energia cromatica che mette in mostra una caratteristica forte: la formidabile armonia, preziosa stella polare nella dimensione di un vissuto insulare – ischitanizzato – che lo ha affascinato e proiettato, come una leva elettrizzante, continuamente verso l’altrove, ma in punta di piedi.
Antonio ci ha trasmesso la tensione verso un luogo geografico davvero lontano; oppure verso una collina rigogliosissima di verde; Vivara nell’albedine celeste o nell’esplosione dell’arancione; e il Castello Aragonese nel blu serale; la Bocca Vecchia, le barche con il porto dirimpettaio che si ammorbidisce nelle nuances-pastello; il faro, il mondo che è comunque lì fuori e non è mai uguale; e bisogna narrare con segni sicuri e tonalità uniche. Un mondo che si può continuare a immaginare con un pensiero libero e sorridente, fino a quando non si avverte l’impellenza di pennellarlo.
Da questo mega portfolio, spazio vitale architettonico e domestico, spunta il cavalletto, il compagno delle escursioni en plein air per farsi catturare dalla potenza della natura.
E c’è il grande tavolo al quale lavorava in piedi, in poche ore di full-immersion, e sempre nell’arco della stessa giornata.
Del resto Macrì ci ha insegnato a trasferire in colori gli esiti della visione che si sono concentrati in uno scatto della memoria breve, dopo aver introiettato un’icona, un movimento, un gesto familiare o straniero. E così, per un evento, una folla – interna ed esterna - e una processione; i giochi dei ragazzi e l’arrivo del peschereccio; una solitudine; la grande nave che salpa (1979) o la tempesta che impaurisce (1981); una nebbia che sorprende; o un crepuscolo, un volto o più volti; la quotidianità della trattoria o della sua locanda a ridosso della banchina.
Considero straordinari gli acquerelli che hanno storicizzato l’intimità frugale della camera da letto dei bambini; o la dimensione metafisica che – con dolcissima ironia – si può intuire nelle donne di casa che sbucciano le patate. Ed è trionfale - e magrittianamente universale allo stesso tempo – l’uomo con sciarpa e berretto (è del 1973) che, di spalle, in una voluttuosa festa di gabbiani, è attratto da una silhouette umbratile sullo sfondo, tra il molo e il liquido salmastro.
Di origine calabresi, Antonio Macrì si è identificato con una ricerca coloristica autonoma, fondata sullo studio della luce condotta spesso a ritroso, anche a intervalli, dai bagliori mediterranei alla percezione dell’oscurità, fino a sedimentarsi – a tratti - in atmosfere sospese, paesaggi diafani con isole e penisole che sono frecce verso l’orizzonte o quinte e paraventi di un’esplorazione rinviata sine die (e che importa?).
Ci sono soggetti, quasi spinti dalla fisica della rifrazione luminosa che – in particolare con l’inizio del millennio - sono declinati nell’imminenza di una epifania, una notizia, un cambiamento però non necessario e che resta perciò obliquo e sospeso, annunciato, e affidato definitivamente allo sguardo deformante dell’altro, di uno spettatore che, in ogni caso, resta in contemplazione, si lascia inglobare e poi dovrà riflettere su sé stesso.
Allo stesso modo, le più recenti interpretazioni figurative della Via Crucis, immerse in una tenue sorpresa laica per il mistero evocato dalla spiritualità, hanno regalato opere emozionanti per la loro essenzialità. La tenerezza, la pacatezza e la benevolenza verso l’umanità hanno rappresentato lo stile, mai sopra le righe, dell’uomo e dell’artista impegnato in un’interpretazione dell’esistenza mai banale. Una lezione che sarà impossibile dimenticare.