Nino Di Costanzo è "Danì maison"
Mandate a memoria quattro sillabe: «danì maison».E aggiungete la firma di Nino Di Costanzo, cuoco pluristellato: è il più importante ambasciatore del «made in Ischia» nel mondo. Poi, prenotate un tavolo nel suo nuovo ristorante che si chiama così, aperto nella proprietà di famiglia sulla collinetta di Montetignuso, non lontana dal centro di Ischia porto, e lasciatevi andare alla scoperta del sublime. Perché il sublime esiste.
Ed è al punto più alto di un’idea forte, tra segni gastronomici; artistici e architettonici, botanici e filosofici; che si sprigionano da una personalità molto ricca. Del resto la sua cucina meticolosa e ragionata, esprime una Cultura a tutto tondo.
Provo a cercarne i leit-motiv, grazie a una breve chiacchierata, diretta, schietta.
Nino, dammi tre parole che ti caratterizzano.
Amore, passione, devozione.
Spiegale.
Cominciamo dall’amore che le racchiude, l’amore per una terra alla quale sono profondamente legato. L’isola merita di più: occorre un impegno collettivo, gli esempi che la spingano sempre verso l’alto. Lo stesso discorso vale per Napoli e la Campania.
E poi c’è la casa. La tua.
È la casetta di mio nonno e dove è nato mio padre, Sabato, che non c’è più e, dall’alto, mi sprona e mi segue: un uomo speciale. È come se fosse accanto a me, con mia madre Concetta, che è molto contenta per l’iniziativa, e la mia compagna Marianna che ha dato l’anima per sostenermi in un progetto complesso. Ho scelto la strada più difficile, quella di fare impresa: è il percorso più ardito perché ho grandi motivazioni e soprattutto voglio stare in cucina, cucinare. Dopo aver lasciato il Mosaico dell’hotel Manzi, un anno e mezzo fa, sono arrivate tante proposte dall’Italia e dall’estero, ma ho capito che non intendo fare il manager.
Stai rivoluzionando il concept del ristorante?
Questa è una piccola dimora-nido di 150 metri quadrati che ha ben duecento anni, con le volte. La proposta di un grandissimo servizio e una grande cucina è quella che mi appartiene. Ma qui spariscono i “muri” che hanno fatto la storia dei ristoranti classici e à la page. L’ospite è il vero padrone di casa. Tutto si fa per chi arriva qui, anche da tanto lontano, e decide di fare ore di volo per sedersi a uno dei due tavoli di una cucina che occupa gran parte degli spazi; o in sala, che ha quattro tavoli. Le sedie sono in stile Anni ’50. Alle pareti ci sono opere simboliche del maestro Antonio Nocera che ha firmato il grande “Paese dei balocchi” e le sculture degli esterni, dove spicca la “Bella ‘mbriana”, spirito benefico e un po’ timido della casa. A me piace l’arte e voglio coinvolgere sul piano emozionale anche così. Bisogna sentirsi a casa propria: dall’aperitivo al dolce chi si ferma qui può fare ciò che gli pare. Ovunque, può trovare un richiamo al nido: uccellini scolpiti e quadri, anche nella micro galleria all’ingresso.
Al design dell’interno fa pendant il magnifico giardino?
In giardino, che è stato curato da Ettore Guarracino, ci sono le piante mediterranee con una forma evocativa, e poi le erbe, i fiori, i nostri colori e profumi. Puoi prendere una bottiglia dalla vecchia pentolona di rame trasformata in champagnera, e camminare sui basoli ricavati da lastre centenarie di lapillo battuto, mentre cogli un’essenza fresca per farti preparare un infuso ad hoc, ad esempio, circondato da opere d’arte, oggetti curiosi di riciclo, scorci che di notte si illuminano in modo speciale.
Come è nato il nome del ristorante, mix di napoletano e francese?
Il nome del ristorante è coerente con un insieme di valori che esprimono l’accoglienza: si chiama “danì”, con la minuscola, un lettering tondeggiante e con l’accento finale, ed è una sintesi di “Da Nino”, ovvero “Da Nì”. Poi, c’è l’aggiunta di maison, e la mia firma. Mi ero consultato con una società di marketing, ma la soluzione l’ho trovata durante le ore trascorse a riflettere, volando da Tokyo verso l’Italia.
Infine, ci sono gli amici, i produttori, i luoghi del mercato.
Fondamentali.
Non potevo fare a meno di fare la spesa del pesce tutte le mattine a Ischia e Procida, di revisionare un piatto di mia nonna, o una pietanza della tradizione campana. E di andare a scegliermi l’agnello migliore; o del contadino che porta le pummarole. Queste cose mi mancavano. Da un anno sto lavorando con Kiton, con persone fantastiche: la famiglia Paone, l’ad Totò De Matteis, Lucio Nigro. Ci lega un’amicizia straordinaria e l’impegno proseguirà. Ma accanto a questo ruolo, quello che conta è avere l’affetto di persone come il professore Luigi Moio, che in Francia è venerato: a lui ho chiesto una frase per introdurre la carta dei vini, e poi produce il Quintodecimo. Fa il paio con i produttori di vino a me più vicini, da Marisa Cuomo ad Andrea d’Ambra, a Nicola e Antonio Mazzella. E poi ci sono gli oli a me più cari: il siciliano Terraliva, Pruneti, Mulino della signora e quelli che ho sul carrello perché straordinari. A loro va il mio ringraziamento, allargato a ditte e imprese impiantistiche, e a tutti i miei ragazzi di sala che mi hanno seguito da anni, e alla mia brigata di cucina.