Il cibo degli Elfi. Funghi, fate e fantasie d'autunno
Sapete qualcosa della segretissima… ricerca che si fa, tra i boschi d’Ischia, non lontano dai solchi di fagioli zampognari, tra ceppi di latifoglie, querce e castagni, ma anche di olivo, del Ganoderma lucidum?
È un fungo non commestibile piuttosto raro da noi, molto conosciuto in Cina e in Giappone per le sue proprietà officinali, antinfiammatorie: ridotto in polvere, se ne fanno pasticche.
Associati alle querce, alberi della vita, spalancano le porte di una digressione che trovo pertinente.
Il 27 e 28 ottobre del 1995 ho coordinato un seminario micologico al quale avevo dato un titolo alla mia maniera: «Il cibo degli Elfi: i funghi da conoscere, i boschi da vivere». Intervenni con una comunicazione denominata: «Degli elfi, dei boschi e dei... cappelli.
Noterelle sul mondo magico dei funghi». Intendevo creare un legame suggestivo tra l’isola, dove i funghi spuntano dappertutto, e vantano migliaia di estimatori, e le dimensioni culturali più lontane.
Ammiccando a questa Ischia vestita di internazionalità, con un sottobosco di narrazioni sovrapposte che si diramano e sconfinano tra realtà e invenzione.
Gli umani dei boschi
Ma non intendo allontanarmi dai “miei” funghi, e dagli elfi che, sull’isola, trovano odierni epigoni in carne e ossa. Se prendiamo qualcuno dei sentieri ormai georeferenziati dal Cai – il Club Alpino Italiano made in Ischia sta assiduamente impegnandosi per la loro valorizzazione – incontreremo qualche prototipo vivente, a conferma della mia considerazione. Il bipede silvano raccoglie tutto ciò che il castagneto gli offre, anche le foglie secche che, fino alla inoltrata metà del Novecento, venivano ammassate in sacchi per farne giacigli per persone e asini: l’uomo dei boschi non si è volatilizzato.
Un veggente inglese, Geoffrey Hodson, così descriveva gli elfi dei boschi: «Sono minuscoli e sembrano ricoperti di pelle aderente di un pezzo solo, che brilla come se fosse bagnata e ha il colore della corteccia di un albero. Le loro mani e i loro piedi sono enormi e sproporzionati al resto del corpo.
Le gambe sono sottili e le orecchie diritte finiscono a punta. Anche il naso è aguzzo e la bocca larga». Di queste e altre descrizioni è ricchissima la tradizione popolare del Nord Europa, animata da regni e mondi e magie e miti e credenze che, insieme, formano una Cosmogonia distinta da un segno inequivocabile: la Natura. E dunque la terra, il bosco, le colline fibrillano di abitatori incantevoli, che oscillano freneticamente tra il Bene e il Male, e che sono abitualmente conosciuti come il Piccolo Popolo. Fate, orchi, elfi, folletti, goblin, gnomi, troll, nani, etc. Luci e ombre, misteri e svelamenti, attraversano questi territori di (senza) frontiera tra il reale e il fantastico, che hanno propaggini sempre più lontane e che si spingono sempre più a sud, quanto più si va a ritroso nel tempo, fino alla nostra isola, al Mediterraneo, e alla Grecia Classica, che è poi la “nostra patria”.
Un calderone ribollente di sorprese, nel quale trovano posto i funghi.
Esistono tantissime favole e canzoni popolari, che collegano tutta quella gente umbratile e solare allo stesso tempo, ai funghi, in un pullulare sincretico di forme.
Il fatto che i funghi compaiono e crescono con estrema rapidità, ha sempre affascinato gli abitanti del pianeta: legarli al soprannaturale è stato quindi... naturale. E che dire del loro aspetto un po’ sinistro, o intrigante, di quei colori a volte fosforescenti, di quei fumi che alcuni emanano se schiacciati, di quei veleni che contengono? E di quei richiami simbolici alla fertilità o, con metafore assai poco filtrate, attinenti alla sfera sessuale? Associarli a divinità, fate, diavoli e affini, è stata così una costante.
Se Robert Graves, nume tutelare dei miti greci, ricorda che l’Amanita muscaria (l’Ovolo malefico), che ha proprietà tossiche e allucinogene, potrebbe essere il vero nettare e l’ambrosia degli dei dell’Olimpo, come non ricordare che, nel “cuore” dell’Europa affollato di saghe, c’è san Veit che cavalca, ogni 15 giugno, per i boschi in groppa al suo cavallo cieco e semina i funghi?
Del resto, a farci considerare abbordabile la teoria di Graves, ci sono le attribuzioni degli usi analoghi che popoli, molto lontani tra loro, fanno dei funghi: in Siberia, in Messico, in Borneo.
Ah, i vichinghi e le fate!
E poi i Vichinghi si rimpinzavano di Ovolo malefico-magico per scatenare quella incredibile furia combattiva, il Berserk, che li caratterizzava, e li rendeva temibili al di là delle loro rudimentali bardature e armamenti, trasferendo su di loro un fascino mutuato, con immutato successo, nei fumetti di “Supereroi” che tutti abbiamo letto.
Secondo la mitologia vichinga, ancora, Woton fu inseguito una volta dai diavoli - ricordano Brian Froud e Alan Lee, in un loro fondamentale studio, Faeries , del 1978 - e le goccioline di schiuma rossa che cadevano dalla bocca del suo destriero a sei zampe lanciato al galoppo, si trasformavano magicamente in altrettanti funghi rossi.
Insomma, l’Ovolo malefico era un vero e proprio dono divino. E, spesso, era un tabù. Come per i Celti, che non toccavano nessuna specie di funghi rossi, né molti alimenti di questo colore, come le bacche di sorbo selvatico, le noci, e così via. Erano “roba”, cibo degli dei. O cibo degli elfi.
Le sostanze estratte dall’Amanita provocano, in genere, in chi le assume una notevole forma di agitazione: si possono avere visioni, come pure ci ha tramandato l’epopea on the road della letteratura americana (Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs non hanno “provato” invano).
E c’è chi dice di parlare con esseri invisibili: fate ed elfi, sempre loro. Insomma un fungo che è cibo, ma anche porta, anzi passepartout, varco d’ingresso, nel Regno fatato. Un sedile magico, un copricapo. O cos’altro?
Le fate, nella tradizione nordica, hanno rivendicato la proprietà di molti funghi. Un fatto che è facilmente riscontrabile nei loro nomi inglesi, come il Bastone giallo di fata (Ditola gialla), la Sella della Driade, lo Scudo del Pixie della duna, il Fungo dei cerchi delle fate (Marasmius oreades), che segna i confini dei luoghi in cui le fate prediligono ballare (e sono cerchi antichissimi: alcuni, è stato provato, hanno più di 600 anni).
E ancora, il Fragile Cappello d’elfo (anche se, i Cappelli d’elfo non sono portati come cappelli, perché gli elfi preferiscono uno stile più elaborato). Insomma, pur senza voler aspirare a essere citati nell’oracolo di un Druido, e ripercorrendo solo a memoria le suggestioni, potremmo - per un attimo - illuderci di trasformarci davvero in un abitante del bosco, per lasciarci affascinare da una prospettiva ravvicinata e interiore che, forse, potrebbe in questo modo farci comprendere meglio con quali, eccezionali tesori biologici abbiamo a che fare.
Perché? Anche per salvaguardarli con consapevolezza, sull’esempio di questa cultura nordica impregnata di... boscosità, che da “noi” sembra un po’ smarrita, nonostante la mediterraneità abbia per vocazione remota una sua pregnante silvanità, come si è detto. E poi, per conoscere, che è un imprimatur di libertà. A proposito, la parola “Gnomo”, deriva da una parola latina medievale, gnomus, combinata con il verbo greco gnorìzo. E, guarda un po’, gnorìzo vuol dire “conoscere”. Anche se, per qualcuno, gli gnomi non sono mai esistiti. Ma, questa, è un’altra storia.
Nel frattempo, chiedete ai “fungaioli” d’Ischia. Altre sorprese non mancheranno.
di Ciro Cenatiempo