Una bella serata di tanti anni fa
Questo racconto è tratto integralmente dal decimo capitolo di Sotiro, l’opera prima, quale narratore, di Nicola Pascale, compagno di liceo e fine intellettuale, già docente universitario a Milano prima di tornare nell’isola verde dove ormai lavora da alcuni anni: è un libro delizioso, dedicato alla memoria del padre Salvatore, scomparso di recente, denso di pagine memorabili, forti, originali e preziose. Come questo amarcord che risale al 26 luglio di oltre mezzo secolo fa: rileggendolo in questi giorni che si sono già messi alle spalle da un bel po’ la festa di Sant’Anna e l’estate 2016, riproduce in me un effetto struggente che mi piace condividere con i lettori. Ringrazio di cuore Nicola, per averne concesso la pubblicazione. (ci.cen.)
Le scogliere allineate che quasi si adagiano sul basso fondale lungo la striscia di mare che va da Varulo al Capitello, delimitano la zona balneabile oltre la quale da ragazzi non potevamo avventurarci.
Allora io non sapevo nuotare,
ho imparato tardi, e mentre i miei amici coetanei si esibivano in nuotate e tuffi mozzafiato, io correvo a perdifiato sulla rena asciutta e ancora calda del sole di luglio
oppure aiutavo i pescatori a tirare in secco qualche gozzo facendo non poca fatica a sollevare le falanghe spalmate di grasso che servivano per far scivolare più facilmente la chiglia.
Il sedici luglio è la festa della Madonna del Carmine e Peppe ‘u delfino ha già preparato la batteria di fuochi d’artificio che ufficialmente serve a commemorare Maria, che sicuramente se ne frega dei botti rumorosi e delle scintille fiammeggianti, ma molto più concretamente soddisfa i gu¬sti pirotecnici di non pochi appassionati a Lacco Ameno.
Sia come sia, è un appuntamento sentito e suggestivo che Peppe organizza puntualmente ogni anno sulla spiaggia nei pressi del suo ristorante, dove c’è una piccola edicola murale che ricorda ai passanti la devozione antica per la Vergine.
«Oh iza Sciusciè, facciamo presto che voglio fare merenda e andare a dor¬mire, sto sveglio dalle quattro di stamattina per tirare, sistemare e ributtare le nasse. Sono stanco». «Gemì a chi lo dici, devo togliere ombrelloni e sedie sdraio ma poi mi voglio godere ‘u fuoc, mi fumo una sigaretta e me ne vado a cuccà».
Le sere d'Estate lungo la marina per me hanno un sapore particolare
La sabbia finissima, pulita e costellata di conchiglie sembra improvvisamente buttarsi in un mare limpido e calmo, quasi senza l’intermezzo del bagnasciuga. Il corso principale del paese, all’imbrunire ma con il sole ancora fermo sull’orizzonte, è attraversato in prevalenza da turisti che tranquillamente fanno compere nei negozietti che offrono tutto quello che possono. L’odore delle pizze che alcuni ragazzi mangiano con gusto e avidità poco lontano è il segnale che ’O Padrone do Mare, collaudato ristorante affacciato sul porticciolo dove finalmente riposano i bellissimi motoscafi Riva Acquarama dopo una giornata di intenso sci nautico, è in piena attività.
Io però mangio ‘u curuccio di pane e pomodoro e le zucchine cacio e uova che zia Maria e zio Franco hanno portato da casa. Arrivati con Giovanni, Sandro e Cinzia, aprono un cesto da dove sbucano anche albicocche e ciliegie che la fame divora mentre corriamo eccitati in ogni direzione. «Nicò, facciamo il Vesuvio?». «Si zio, ma fallo tu che sei bravo, quando lo faccio io crolla tutto». «Ok, voi trovate dei giornali vecchi
che poi l’accendiamo».
La sabbia bagnata a volte modella castelli, noi costruiamo quel vulcano che giusto sullo sfondo in terraferma osserva incuriosito. Zio Franco è bravo, infila nel cavo del cono carta e piccoli ramoscelli secchi che poi accende; e il fumo esce dalla cima accompagnato da applausi ed esclamazioni divertite.
«Bello, che bello!».
«Sembra vero, eh?».
«Guarda, guarda, arriva Salvatore con una canna in mano, ma che fa? Sembra San Pietro».
«Papà, che è successo?».
«Che è successo? Ho preso un totano gigante, là, vicino alla cappella di Santa Restituta. Incredibile, è stracquato a riva con questo caldo… Franco, Marì, venite a vedere».
Intanto, nei pressi dell’edicola votiva dedicata ai santi protettori della gente di mare, si è già radunato un capannello di curiosi. Bernardo ‘u vescovo, Mimì ‘e ‘nzogna e Savatore ‘u luongo luongo discutono animatamente sul modo di catturare quello che a me sembra un mostro marino, con i tentacoli protesi in ogni direzione e il suo tipico colore bianco e rossiccio.
«Guarda che totano, mamma mia, con la spugna non si sarebbe potuto tirare a bordo se lo si pescava sulla
secca del Caruso. Mimì, dammi il coppo grande».
«Tieni qua».
Il sole cala placidamente tra grida e risate per l’evento clamoroso. Ma quasi subito a nostra attenzione viene distratta dall’arrivo di una barca che ad una quindicina di metri di distanza inizia il caratteristico giro della pesca con la sciabica. Lasciata un’estremità sul bagnasciuga tenuta dal fratello, Peperipè con aria affannata butta in acqua prima la rete laterale e quindi quella che è l’autentica trappola mortale per i pesci che non sono riusciti a svignarsela oltre la zona delle operazioni: una sacca a maglie fitte che non lascia spazio a possibilità di salvezza. Poi si completa il percorso fino all’altra estremità e gli abili pescatori, con la partecipazione di tutto il pubblico rumoroso che butta sassi di ogni forma e grandezza per ingabbiare i poveri malcapitati, trascinano verso terra una massa indistinta di animaletti in movimento frenetico.
Il buio è calato e sotto la luce gialla di qualche lampione che dalla stradaproietta timidi raggi verso il mare azzurro scuro, si intravedono triglie, gamberi, fravagli, retunni, pinterrè, scorfani, granchi, piccole sogliole, scuncilli e qualche riccio acuminato e nero come la pece. Le urla di entusiasmo dei ragazzini sono assordanti. Dimenticato il totano che nel frattempo papà con alcuni amici è riuscito finalmente a prendere per ammirarne la grandezza, ci precipitiamo dove i fuochi accesi da Giuliano – con girandole multicolori, fischi e gocce ardenti che sembrano uscire dalla bocca del vulcano che proprio lì vicino avevamo costruito – concludono ‘a primma serata.
«Andiamo a sentire le canzoni?».
Zia Maria con Cinzia in braccio propone una cosa quasi scontata: sederci tutti sulla rena del “Regina Isabella”
e zitti zitti senza farci sentire da Vitale, bagnino-Caronte che con la sua aria arcigna traghetta i turisti dalla spiaggia allo ”Sporting”, aspettiamo che inizi lo spettacolo.
«Chi c’è stasera?».
«Rita Pavone e Caterina Caselli. Lunedì Rocky Roberts, vorrei proprio vederlo quello svitato!».
In una atmosfera di silenziosa attesa, con il sottofondo di un’orche¬strina jazz che prepara i clienti all’evento vero e proprio, si scorgono in lontananza tre, cinque, poi nove gozzi a remi che con uomini, donne e bambini a bordo accostano sotto la terrazza all’aperto dove fra non molto si esibiranno i beniamini della tivù. Vederli è meglio che sentirli, sbirciando dalla barca cullata da leggere ed impercettibili onde. Le lampare più in là, con il loro riflesso argentino sulla calma lastra d’acqua abbandonata dalla luna nuova, evocano tempi lontani ignari dei clamori di oggi.
«Salvatò, che mi dicevi della festa di Sant’Anna?».
«Il ventisei, cioè fra dieci giorni e come ogni anno, il Commendatore Rizzoli organizza gli spari pirotecnici per l’onomastico della moglie. Ma grandi e belli Franco, eh?! Poi vedrai».
Già, Angelo Rizzoli. Gli alberghi, l’ospedale, la piazza, la moda, il bel mondo spendaccione e snob, i cantanti famosi, il benessere tanto sperato da una comunità di pescatori e contadini che sa parlare soltanto il dialetto ma lotta con fatica per cambiare in meglio un atavico e stentato modo di vita.
Le scogliere allineate aspettano anch’esse il ventisei luglio millenovecentosessantaquattro: da lì si innalzeranno verso il cielo le saette variopinte che descriveranno nella notte, con le loro luci, immagini effimere e lumi¬nose. Sono di certo, le scogliere, il riparo sicuro delle barche dall’insidia dell’impetuoso vento di ponente che a volte d’inverno si abbatte disastro¬so sulla costa.
E sono, forse, anche il riparo simbolico dagli affanni e dalle miserie, dai dolori e dalle privazioni che hanno sopportato i nostri padri.
di Nicola Pascale