Tra vino e mare: i 50 anni della D.O.C.
Nel corso dei millenni l’isola d’Ischia ha vissuto periodi alterni di stabilità geologica e politica e la sua viticoltura ne ha seguito la storia, espandendosi e contraendosi secondo i ritmi della natura e la necessità degli uomini. Da quando la presenza umana sull’isola è documentata, prima dagli scavi archeologici e poi dalle fonti scritte, si possono riconoscere tre momenti importanti nella vitienologia ischitana. Il periodo greco, risalente all’VIII secolo a.C. trova la sua più significativa testimonianza nel ritrovamento della Coppa di Nestore,
un manufatto di origine rodiota che porta incisa un’epigrafe di lode al vino e all’amore, segno che la coltivazione della vite e la produzione del vino nell’isola erano due attività diffuse tra la popolazione. Dopo secoli di squilibrio geologico, dovuto a eruzioni, terremoti e bradisismi; e politico, provocato da invasioni di vari popoli e attacchi di Mauri e pirati, tra il 1400 ed il 1600 la viticoltura conosce una relativa tranquillità, che consente un notevole sviluppo sia della messa a coltura di nuovi vigneti che della produzione dei vini, in termini di quantità e qualità: «Grechi, sorbigni, latini, coda cavalli» come li cita, nel 1588, il medico calabrese Giulio Iasolino nel suo fondamentale volume intitolato “De Remedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa: oggi detta Ischia”.
Vino greco e vino latino
Vino greco e vino latino, in questo periodo, perderanno l’antica connotazione relativa al modo di allevare le viti, basse e a tutore morto quello greco, alte ed appoggiate al olmi 0 a pioppi quello latino, come ancora
oggi è possibile riconoscere in alcune vigne ischitane; e indicheranno invece due diversi modi di vinificare.
Le uve appassite su graticci daranno il vino greco, di minor quantità ma più dolce, alcolico e serbevole e per questo molto ricercato perché trasportabile anche a grandi distanze; le uve subito pigiate daranno invece il vino latino, prodotto in grandi quantità ma di qualità decisamente inferiore. Infine tra il 1800 e il 1900, la vitienologia ischitana riprende nuovo vigore tanto da imprimere una particolare fisionomia al paesaggio naturale e allo stesso porto, inaugurato nel 1854. Le pendici dell’Epomeo sono modellate da strette terrazze sostenute dalle parracine, i caratteristici muri a secco di tufo verde, tipico dell’isola. Si raggiunsero, nei primi decenni del novecento, circa 3000 ettari di terreno vitato, tanto prezioso da essere venduto a misure di 140 metri quadrati, del valore di 250-280 lire (18.000 - 20.000 lire a ettaro nel 1914). Sul porto, circondato da ogni lato da carrati di castagno, avveniva prima l’abbonimento, cioè il lavaggio dei recipienti di legno con acqua di mare, e poi la cuffiata, ovvero l’avvinamento degli stessi recipienti con vino bollente, dopo lo svuotamento dell’acqua di mare. Presso il porto, sorsero, nello stesso periodo, tre fabbriche di botti, a dimostrare dell’intenso e proficuo commercio che l’isola aveva con il continente.
Verso la modernità: vitigni antichi e recenti
Non solo i modi di coltivare e di produrre il vino a Ischia si sono adattati ai cambiamenti naturali e storici, ma anche i vitigni si sono succeduti nel corso dei secoli. Alcuni sono presenti da tempo immemorabile nell’isola, come la Biancolella, la Guarnaccia, il Cannamelu; altri, come la Forastera e il Per’ ‘e Palummo o Piedirosso, vi furono introdotti dopo
l’epidemia di oidio del 1850 che distrusse molte vigne non solo a Ischia ma in tutta la Campania. Proprio Biancolella, Forastera, e Per’ ‘e Palummo (Piedirosso) sono i vitigni oggi maggiormente diffusi e alla base dei vini D.O.C.
Le prime notizie storiche della Biancolella si devono a Giuseppe D’Ascia che la nomina nella sua “Storia dell’isola d’Ischia” del 1867. L’importanza e la diffusione di questa varietà danno conto dell’interesse dei vari studiosi che l’hanno citata o descritta, a partire da Giuseppe Frojo (1878) Jean Foex (1909), Salvatore D’Ambra (1962), Sante Bordignon (1965). Circa la sua origine, a lungo si è ritenuto che la Biancolella provenisse dai dintorni di Bastia in Corsica e sia stata da lì portata a Ischia. È possibile che l’equivoco sulla sua provenienza sia invece sorto da un’altra località, Bastia presente sul versante nord occidentale dall’Epomeo da dove probabilmente è derivata la varietà comparsa quindi sull’isola e non importata da altri luoghi. La Forastera, come dice anche il nome, non viene citata dal D’Ascia, segno di una sua introduzione posteriore al 1867, e sebbene di qualità inferiore alla Biancolella, si diffuse rapidamente per il carattere di resistenza all’oidio e per una maggiore produzione. Il Per’ ‘e Palummo, da sempre noto in Campania con questo nome - mentre la sua italianizzazione in Piedirosso è piuttosto recente - è stato ed è ritenuto attualmente uno dei vitigni a bacca nera più interessanti della Campania. Non mancano sue citazioni storiche antiche come quella di Nicola Columella Onorati del 1804 e ancora di Giuseppe Frojo (1876) che lo considerava tanto espressivo da poter essere paragonato ai vini francesi come il Beaujolais.
1966, l’anno della Denominazione d’origine controllata
Il primo disciplinare di produzione per i vini dell’isola d’Ischia porta la data del 3 Marzo 1966, quando il Decreto del presidente della Repubblica (D.P.R.), poi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 9 maggio dello stesso anno, riconosce le denominazioni di origine controllata e protegge le tre tipologie dei vini Ischia bianco superiore, Ischia bianco, Ischia rosso. Successivamente, nel 1993, il
disciplinare originario è modificato per tenere conto proprio dell’importanza dei tre vitigni prima citati e viene quindi riconosciuta la D.O.C. “Ischia” nelle tipologie Bianco, Rosso, Forastera, Biancolella, Piedirosso (Per’ ‘e Palummo), oltre alle categorie “Ischia spumante” e “Piedirosso (Per’ ‘e Palummo) passito”.
Va detto che i vitigni ammessi nelle D.O.C. per i bianchi sono: “Forastera” e “Biancolella”; per i rossi: “Guarnaccia”, “Piedirosso” (“Per’ e Palummo”), in percentuali diverse secondo le tipologie.
Il 2016 segna dunque una data storica per la vitivinicoltura dell’isola d’Ischia, 50 anni dopo il riconoscimento di quella che, in ordine temporale, è stata la prima D.O.C. campana e tra le prime tre italiane.
Un riconoscimento che esaltava le straordinarie fatiche fisiche e intellettuali degli “uomini della terra, e tutelava l’economia agricola dell’isola fondata sul vino e sugli uomini custodi di un patrimonio ultra millenario e di inestimabile valore. Ancora oggi nonostante le fonti economiche si siano diversificate, Ischia rimane tra le più coltivate delle piccole isole italiane, e il suo vino è diventato famoso nel mondo.