Ariosto in accademia L’Orlando di Cocciardo
“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori… io canto”
Il retorico chiasmo, come un tris tracciato dall’incrocio di quattro pennellate, apre e sintetizza l’Orlando furioso di Ariosto. Disciplinato da una griglia di ottave di endecasillabi, il poema cavalleresco si articola in un turbinio di personaggi, eventi, sentimenti che si affollano, si accalcano, si avvicendano. Si pensi ai dipinti o agli arazzi rinascimentali che raffigurano le epiche battaglie di Pavia, Roncisvalle,San Romano di artisti come Paolo Uccello, Ruprecht Heller, dove si avvolgono come onde, teorie di forme e colori (corpi in torsione convulsa, armature, muscoli di guerrieri e cavalli) scandite da lunghe file di lance che montano un’impalcatura geometrica fatta di corrispondenze tra rette, semiassi, raggi con diametri di tensioni: una calca biblica di uomini e bestie che è impossibile enumerare e immediatamente distinguere nei particolari ma che, tuttavia, funziona come un meccanismo perfetto.
Così come l’artista nel “figurare” organizza la materia pittorica in una struttura di complessi equilibri geometrici e cromatici che armonizzano l’energia e i pesi del segno, della forma e del colore per dar vita a un organismo artisticamente vivo e pulsante, così l’arte del letterato-poeta è quella di costruire una cattedrale di parole significanti e sonore che dovranno funzionare come una costruzione semantico-architettonica, parole che, forgiate dalla raffinatezza dello stile, raccontino un’umanità fatta sì di vicende ma soprattutto di bellezza, sentimenti, valori.
Il “cantare”, quasi un “recitar cantando”, di Ariosto equivale anche al comporre del musicista che deve risolvere stilisticamente e formalmente un complesso madrigale in cui le voci (i contenuti) si allineano, si intersecano, si contrappongono, si giustappongono in un fitto contrappunto da articolare nella maniera più organica e coerente, rispettando le leggi dell’armonica convivenza dei suoni che divengono trama e ordito di un tessuto vivente. Ariosto individua un codice di espressione linguistica e diventa magistrale musicista nella scansione della parola, nell’articolazione del fraseggio, nell’uso sapiente di pause, corone e cadenze come nell’alternanza delle varie idee e dei temi, conciliando la dimensione reale e quella fantastica, nell’entrelacement (intreccio), riuscendo a galvanizzare tutti questi elementi in maniera che obbediscano alle esigenze della unitariètà della composizione cosicché un racconto così ricco e denso, magicamente, scorre fluido come la pellicola di un film che si snoda in sequenze, tagli, riprese, rimandi, agganci.
Come si pone e si ipotizza quindi, di fronte a un’opera letteraria di tale poderosa grandezza, l’idea di un adattamento teatrale (metabolismo di una esegesi testuale che riduce il tutto a un paio d’ore di rappresentazione e artificio di giovanissimi allievi di recitazione) che possa rendere, compararsi o solo alludere al poema dell’Orlando furioso senza tema di profanarlo, di disgregare la contestualizzazione della narrazione, di produrre lo stridio dell’alterità epocale o semplicemente di disattenderlo o comunque di ridurlo ad una commediola?
Per fortuna, un tale poema è musica pura che necessita di essere interpretata dalla voce, perché è il suono stesso della parola animata dall’ingranaggio del metro che provoca lo scaturire dei sentimenti e delle emozioni, che funge da ripetitore del climax, che evoca i luoghi, i fatti, i personaggi, la scena, e questa necessità di esecuzione parlata riporta direttamente alla recitazione pura. L’adattamento si attua semplicemente rispettando le ragioni e la natura stessa di una rappresentazione scenica e cercando di cogliere l’essenza profonda del messaggio ariostesco, evocando l’opera letteraria attraverso le sue ombre, alludendo alla poesia, citandola ma integrandola con la declamazione di una prosa che, nella sintesi, non tralascia di marcare la forza delle pulsioni emotive, scorporando la parte encomiastica e celebrativa, il logo estense della casata ferrarese (antico sponsor nell’Italia delle corti) glissando sulla componente cavalleresca che diventa un profumo evanescente, lasciando le armi e la guerra dietro al fondale come un ologramma che si percepisce senza materializzarsi: insomma portando in primo piano i temi dell’amore e della follia, scaturiti dalla fonte inesauribile del desiderio, ardente come sete implacabile, che sono il leitmotiv, le parole chiave di questo poema. Acuto e vigile nell’avvertire come l’attrito tra le alterne vicende produca altresì un germinare di spunti vivaci e ironici, Cocciardo non tralascia di coglierli e svilupparli come innesti non pretestuosi ma allusivi alla nostra contemporaneità.
D’altronde l’ironia è una spezia che aromatizza anche l’opera letteraria ma qui è rigenerata in un adattamento attuale e perspicace. Tuttavia raccontare di “donne, cavallieri, arme ed amori” ai nostri giorni quando gli uomini non fanno neanche più il servizio militare e si amoreggia virtualmente su Fb o su WhatsApp è la vera impresa epica!
Cosa salvare di quest’opera che possa essere captata dalla sensibilità e dai sentimenti contemporanei dove la follia senz’altro ancora esiste ma si manifesta nei delitti familiari, nel femminicidio, dove le tenzoni cavalleresche si consumano fuori delle discoteche, dove le guerresche imprese tra i mori e i cristiani diventano il problema e l’insofferenza dell’immigrazione o la minaccia del terrorismo islamico?
Come poter associare idealmente Durlindana, la spada di Orlando, che è sempre stato un simbolo fallico e (capovolta) cristiano, con l’ultimo Iphone7 che la sostituisce indegnamente, e Angelica con l’immagine “photoshoppata” di Belén e addirittura spiegare quella follia che invece oggigiorno esplode il sabato sera innescata da una pasticca? Non resta, a un sognatore come Cocciardo, che voglia celebrare con gli allievi di recitazione dell’Accademia il capolavoro di Ariosto, che estrarre dalle cavalleresche ottave del vecchio nonno Ludovico quei sentimenti universali che ancora residuano nell’animo dell’uomo contemporaneo poiché, come recita la calviniana citazione, “un classico è un libro che non ha mai smesso di dire quel che ha da dire”.
Riesumare la purezza della follia e dell’amore riportandole in vita dopo un’archeologica decompressione è magia dell’adattamento e della regia ma, senz’ombra di dubbio, dell’animo ancora incontaminato di questi giovani folli e innamorati del teatro che inseguono ombre e profumi di un sogno; che, impegnandosi in una vicenda irreale, ritrovano, in sé stessi, una realtà che sembrava perduta.
DI TERESA COPPA