Loretta e l'armonia della minestra maritata
Fotografare Loretta è praticamente impossibile. Al principio di questa storia saporita c’è proprio la caratteristica peculiare di un personaggio al quale sono legato da profondo affetto, da decenni. Niente foto che ritraggono Loretta, tranne una in compagnia del figlio Francesco, dal quale traspare il suo esemplare understatement. Una ritrosia magnifica come la sua “erre” un po’ arrotata in una voce squillante, che vibra insieme al sorriso: è lo specchio di una saggezza profonda, enorme, antica. Loretta Cazzola, veneta-vicentina da Schio, sposa di Riccardo d’Ambra, madre di otto figli e con un bel nugolo di nipoti a incoronarla “nonna”,
è l’artefice di molti miracoli: ha sostenuto e garantito, con la sua presenza concretissima eppure impalpabile, la realizzazione di sogni e destini familiari che poi hanno avuto grande impatto sulla società ischitana.Dalla nascita della trattoria “Il Focolare” a quella di “Slow Food delle isole di Ischia e Procida”, e molto altro: progetti che portano certo la firma di king Riccardo, così come di Silvia, Laura, Luciana, Antonella, Maria Teresa, Cristiana, Agostino e Francesco che compongono la “ciurma D’Ambra” come amano definirla loro stessi.
Sembra banale: ma senza la cura attenta di Loretta, con la quale - guardandoci negli occhi con forza – ho scambiato tante idee e pensieri riservatissimi nel corso del tempo, non riesco a immaginare la rivoluzione culturale che Riccardo ha realizzato con il sostegno della sua splendida tribù. E con l’aiuto di tantissimi amici catturati dalla prepotente e vulcanica simpatia del gruppo. Tant’è. Loretta, dunque, simbolo di passione e resistenza prealpina, dolcemente avvolta dal caotico e indolente tepore mediterraneo, per un giorno si prende i riflettori… sapientemente senza apparire. Non è un paradosso, lei è così. Lei, che non è una cuoca di professione, ci spiega la personale ricetta della “minestra maritata”, piatto simbolico del Natale e in particolare della Pasqua nella gastronomia campana. Un piatto che, del resto, proprio grazie a Loretta e al “Focolare”, ha ritrovato uno spazio nell’immaginario isolano.
Come è iniziata la minestra-story? «La minestra maritata non fa parte della nostra cultura veneta: è un piatto così talmente ricco nella sua semplicità che solo i napoletani avrebbero potuto crearlo. Quando abbiamo aperto il ristorante, in occasione della prima Pasqua alcuni clienti ci hanno chiesto con insistenza di metterlo in menu. Mi ha incuriosito il fatto, e mi sono subito chiesta come prepararla. Poi ho incontrato una signora napoletana verace, Susi Savarese, sposata con un ottimo e noto macellaio (Antonio “Totonno” Savarese, indimenticabile, popolare e poliedrico artista d’antan scomparso di recente, ndr), e restammo d’accordo che mi avrebbe insegnato come La ricchezza della semplicità è nella stessa identità di Loretta. Basta ascoltarla.
E poi? «Il primo anno andammo, con Susi, a raccogliere insieme le erbe e i prodotti per i brodi e insieme l’abbiamo fatta. Il risultato di questo lavoro, certosino, non difficile, ma è rappresentativo del territorio nella sua complessità: è un piatto così talmente particolare che mi ha sempre affascinato. Da allora non è Pasqua, senza la minestra maritata».
Come si prepara? «Cominciamo da brodi, innanzitutto. Sono tre e fondamentali. Un brodo di manzo, un brodo di gallina e un brodo di maiale. Quest’ultimo si fa con i gambetti di prosciutto crudo e i salamini piccanti. Per la gallina, ovviamente è preferibile quella nostrana, la paesana che è più saporita. Ma quello che determina il sapore predominante è il brodo di maiale. Il manzo è meno concentrato. Si preparano i brodi e si uniscono con una certa proporzione che si fa, diciamo a occhio, a palato».
L’equilibrio è intuitivo? «Certamente. Le carni vengono poi spolpate e tagliate a pezzetti che verranno aggiunti in un secondo momento. Quindi si passa alla selezione delle verdure. Secondo me, in passato, le verdure erano una miscela di erbe di campo che si raccoglievano in primavera, che ora però è sempre più difficile trovare. Ci sono delle erbe dolci e delle erbe amare, e bisogna anche qui trovare il giusto equilibrio tra loro: la scarola e le scarolelle, la verza, il broccolo nero e, personalmente, aggiungo pure quelle spontanee, come la bieta, e un po’ di spinaci. Tra le amare, la cicoria e la borragine che è la più intensa. Vengono pulite e sbollentate individualmente con poca acqua e sale, tirate su e tagliate. Infine si aggiungono i brodi, le carni e dei pezzettini di parmigiano e pecorino». Non ci sono altri dettagli, meglio così.
Ad affascinarmi è la contaminazione, l’originalità, l’innovazione e la reinvenzione della tradizione; la trasgressione rispetto ai canoni presunti che, tra l’altro, in cucina sono dispettosi e mai uguali a sé stessi. Regole e ricettari che hanno delineato la fortuna storica – da almeno settecento anni - della “minestra maritata” che a Napoli chiamano anche “pignato grasso”. E che, poi, possa addirittura evocare una minestra “apiciana” di romana memoria; o la“olla podrida”spagnola, poco m’importa. In questo pot-pourri c’è un’armonia irresistibile.
Firmata da Loretta.