Estate. O della seduzione - Amarcord dell'epoca bella
Tlin, tlin, tt-lin, tt-lin, tlin-tt-lin…ttt-lin…tt.
Un perfido, docile, perforante martellio. Era il rumore della catena dell’ancora tirata su dall’arrugginito verricello del Santa Rita in partenza: il traghetto diretto Napoli, la linea (poco) veloce d’estati adolescenti.
Erano suonate, ritmate dalle prove acustiche della Lampara, laboratorio pomeridiano che spezzava la controra, preludio di quello che sarebbe diventato un fantasmagorico by-night, che era un tutt’uno con le case della Riva Destra, salotto buono e goliardico.
L’attesa per la notte serpeggiava, e s’infilava come sangue pulsante nelle maniche degli ospiti della Pensione Beltramonto, nascosta nel palazzo al civico 28 di via Porto, con i suo balconi pomellati e le persiane verdi con le gelosie a doppio battente, tirate a lucido da zio Tonino con le sua dita a bacchetta, lo sguardo perduto del marinaio roccioso, verso la palla rossa d’occidente.
Rientrava in darsena, solleticando le increspature del maestrale, un nobile Riva a due motori, in puro tek.
Ne seguiva la scia il motoscafo di Tonino Baiocco, con l’altoparlante che aveva gracchiato di nuovo il suo annuncio in nasal-milanese percorrendo al largo i litorali, per catturare l’attenzione dei futuri nottambuli a mollo come trichechi ancora intorno al pack: passava non lontano dal bagnasciuga del Lido, ai Maronti, a Citara, a Cava dell’Isola, e ripeteva il suo refrain pubblicitario:
«Tuti-tuti guesta seera allo Scooch clàb con Pepino Di Capri e la szua oorchestraa». Voci e sciabordìo in banchina, colonne d’una fame d’incontri spiegati alle vele del tramonto.
Raccontati alle triglie pescate agli scogli del Cantiere, sulla bocca di quel porto che era stato un lago, vicino al fanale verde. Studiati, come gli “occhi di triglia” serali, roteati a catturare labbra e bellezze da struscio tra pub e ristoranti.
A due passi dall’universo chic, la boutique di Antonia (che charme, in quel tempietto d’eleganza esotica e rara!) con le sue mannequin; accanto alla taverna Antonio, trendy, con i suoi sgabelli di legno dal gusto dolce-amaro del luppolo d’una birra, un peroncino senza schiuma.
L’immaginazione e lo sguardo si illanguidivano alle pre-visioni dei flambé e dei lumi di candela, piedini e bacini d’atmosfera.
Più in là, quelle conquiste di testa, si svegliavano in téte à téte prodigiosi, in languori complici, in bottiglie divine, nel bon-ton memorizzato dallo stile (condiviso a tentativi) con i veri playboy della belle époque che erano gestualmente poliglotti, e più efficaci d’una agenzia di viaggi.
«Wilkommen!».
Camicia apertissima sul torace, i playboy stavano seduti di sguincio, in perfetta asimmetria: il bicchiere semivuoto d’un liquido trasparente (tequila, vodka, acqua?) tenuto sul fondo, tra le dita, l’indice un po’ staccato verso l’alto, con nonchalance ruffiana. Eternamente sospeso a mezz’aria, col gomito poggiato sul bracciolo, pronto ad un cenno: a metà tra il brindisi, il saluto, e l’invito sorridente. Attendevano il materializzarsi della probabile compagnia d’una soirée, la luce bionda d’una turista in promenade.
Le ragazze sapevano che l’estate, senza lo scalpiccio ondulato, appena appena incerto, sul basolato della Rive Droite; senza un’avventura propiziata da quelle macchine da guerra erotica e memorabile, che sul bigliettino da visita avevano scritto in caratteri a rilievo: «Amatore», non era l’estate.
E si divertivano. A navigare a vista la propria navigazione sentimentale già tracciata sulle mappe del sogno afrodisiaco nell’ultima notte prima di partire per Ischia, l’avamposto del piacere. Si liberavano a giocare con la seduzione, a immergersi nell’acquario portuale, a bagno con suoi preziosissimi esemplari maschili; a far mostra d’abbronzature e décolleté, a lasciarsi mostrare all’universo, sorprese nel sottobraccio fatale.
Quando la reciproca conquista era sbocciata, scattava il cerimoniale della passeggiata-mani-sui-fianchi, destinata a certificare l’avvenuta predazione bipolare.
Era protratta a lungo. Affinché gli altri caballeros solitari potessero apprezzare, giudicare, votare il battito di Cupido, la freccia nel cuore, bersaglio di classe. Punteggio alto? Un’altra estate era stata santificata.
Il ritorno in Francia, in Germania, in Austria, a Milano era un fremito, e l’arrivederci all’anno prossimo era come una prenotazione.
Benedetti caballeros.
Quante volte finivano in overbooking?
La Rive Droite
La Rive Droite
è rimasto un acquario, per vedere e farsi vedere. Le vetrine sono affollatissime. La notte pullula di teen-ager, i bar e i luoghi gastronomici con la solita sarabanda di ricci e aragoste, gamberoni e rane pescatrici in bella vista all’ingresso, hanno lo smalto un po’ sbiadito, ma luccicano sempre di corpi perfetti, di infiniti crocicchi, di agglomerati umani che pigramente s’assordano in progetti per una pizza o uno slancio ballerino.
«Dove si va, stasera?».
Alla fine si resta lì, sul porto, infagottati nella certezza d’una estate un po’ meno estatica, ma divertita e piaciona. Ed è quello che conta, fino all’alba di un nuovo giorno. Dalla banchina Olimpica, intanto, s’avverte il digrignare ferroso del primo traghetto per Pozzuoli, il frullo dell’elica nel fondale basso, la risacca che fa gemere l’amplesso di gozzi e sartiame. Come lamenti di sirenidi. Qui e non altrove.
Mota mutevole (Cava Scura)
La schweinebecken, la vasca dei porci, forse è sempre lì. Una fonte termica sotto il sole a picco, i calanchi bianchi scavati dalle piogge e dal vento; qualche ginestra, i massi fermati dalla lava sui pinnacoli, a formare improbabili dolmen: l’estate di quest’oasi piacerebbe ancora a Pindaro e Strabone, Plinio, Cicerone.
Qui l’estate è cambiata giusto di quel tanto imposto dalla modernizzazione-soft di nuovi proprietari, di quella che si chiama da sempre la «Cava del fresco»: la prima conca nel canyon dell’eden della Cava Scura, il secolare percorso curativo interno alla spiaggia dei Maronti.
“Porci alati” frequentavano quel luogo termale del mito adamitico, una babele di volti e sorrisi, fanghi e scottature, bagni e amori semplici, che era un catino di argilla di appena
una dozzina di metri quadrati.
Traboccava di acqua bollentissima, un po’ limacciosa per i tufi disciolti, mota mutevole: la sorgente era di fianco, in una grotticella torrida scavata nella roccia e trasformata in sauna, con tavolette sconnesse per evitare di bruciarsi i piedi.
E con un maledetto telo di plastica a fare da séparé con l’esterno. A ogni refolo di maestrale, l’uscio semi-trasparente incrostato di minerali sedimentati e incollati, crollava giù con uno strappo. Spifferando i segreti
turbamenti cavernicoli.
Ma si continuava a grondare sudore
con la felicità negli occhi.
Promesse di un agosto che abbracciava il mondo, nascosto nell’idea d’un viaggio verso il sogno del benessere: si partiva dalla Germania o dalla Svezia, dal cuore di un’Europa spensierata; o dal batticuore vicino di Testaccio e Sant’Angelo, per incontrare il mondo.
Oggi c’è un ristorantino, i lettini prendisole, un idromassaggio, un altro buco-sauna naturale.
Cava Scura e Cava del fresco sono un po’ isolate. Un’avventura, per arrivarci. Attraverso l’imprendibile via Iesca, da Serrara; in taxi-boat dal mare fino all’ingresso nel canyon dal litorale. Ma che fa? C’è un tratturo che costeggia le pareti marontiane: fichi d’india e fichi stesi ad asciugare sulle stuoie, i filari di viti con l’uva già quasi matura.
I tedeschi, che amano sfacchinare, s’incamminano.
Il popolo termale non diserta il mistico, meraviglioso stabilimento della «aqua fervens cavae obscurae» come la definì il grande cartografo Mario Cartaro: su commissione di Giulio Iasolino, nel 1586, disegnò per la prima volta, e con precisione rara, l’isola d’Ischia con i suoi tesori.
L’estate non dimentica i profumi imperdibili della cucina degli eredi di Stalino, una trattoria (la taverna Da Pietropaolo) che per anni è stata decantata su tutte le guide. Incastonata dentro l’argilla, sotto le pagliarelle: rossi pomodorini su spaghetti e coniglio; e l’eco dei ranocchi smeraldini, tra i canneti del rivolo tiepido che, per millenni, ha inciso la montagna.
Qui Cesare Mellusi veniva a raccogliere il prezioso fango, occultato in cofanetti di ceramica, che pennellava – dispensandolo con lentissima parsimonia - sui volti di ragazze in lista d’attesa:
soave pruderie.
E una coppia di giovanili, simpaticissimi pensionati, dorati dal sole, lui magrissimo e minuto, un po’ calvo con sparsi filamenti-spaghetti sulla crozza; lei paciosa, abbondante e fatale col suo rossetto rosso, tutti i giorni partiva col primo ferry-boat da Napoli, per non perdere un solo spicchio di Natura incontaminata. Che coppia: una sorta di fachiro glabro con, al fianco, un’improbabile e dolcissima Pomona.
Oggi Claudio serve drink.
Alfredo continuaa replicare i suoi massaggi miracolosi, mentre alla Dolce Siesta, si riproduce con la fretta d’un tempo immobile il menu delle insalatine di campo, terapeutiche come le ombre salmastre del pomeriggio.
Accanto alla «Gaggia» del caffè, c’era una gigantografia con Fred Bongusto, appassionato scopritore e ambasciatore di questi luoghi: t-shirt, capelli lunghi, spensieratezza di un isolano verace.
Con chitarra.