Un uomo di carattere - Letteralmente
Incontro con un maestro
di lettering design, grafica
e visual communication.
Nato a Forio, vive
a Brooklyn e insegna all’università
a New York: è il creatore
del “Serif Gothic font”,
ed è legato visceralmente alla terra e alla lingua d’origine, all’insegna del piacere. E di una contagiosa, ironica trasgressione.
Nella piazza della fontana, a Forio, tra i tavoli del bar c’è il brusìo da suk che si mescola alle nostre parole in slang, suoni furiene1, dialoghi sincopati in americano purissimo, ripescaggi di memoria, risate, battutacce e sonagli pacifisti da agitare. Ascoltare Tony Di Spigna non equivale alla trascrizione italianizzata della nostra chiacchierata a tema artistico. C’è altro. Ad esempio dal mio interlocutore esplode, bellicoso (ed è un ossimoro voluto), il suo sfegatato pacifismo, che ci impone di pensare il mondo in modo attento, in tempi globali che incutono – di nuovo – incubi. «Una volta volevo creare – dice - il “cappotto del terrore”, con i simboli dei fascismi mondiali appuntati sulla stoffa come paradossali cimeli. L’industria delle armi è un business enorme, pazzesco, soprattutto in America: chi fa i soldi con le armi, vorrei appenderlo a testa in giù, legato per le…».
Ma se è questo è lo sfondo, mi interessa un po’ svelare la personalità di Tony, che è nato a Forio 73 anni fa, vive in America; è un artista completo e, soprattutto, è un maestro di lettering design, grafica e visual communication. È un mito, e non solo, per gli studenti del New York Institute of Technology and Pratt Institute, dove insegna. Dodicesimo di tredici figli, allievo del grande Herb Lubalin, ha ricevuto premi e riconoscimenti perché, tra l’altro, inventa i caratteri di stampa, come il Serif Gothic. Quando torna a Forio, ogni estate, trascorre ore in campagna, fa vita contadina con i parenti, e si mette a “fare le bottiglie di pomodoro”, scorrendo quando può tra le pagine di Stephen King,
Shakespeare, Kerouak, Hemingway.
È un personaggio formidabile. Anche se non la citato, ha un “che” di Bukowski, il mio fantastico Charles...
Quanti anni hai?
Sono nato nel ’43: avevo nove anni quando sono andato in America. Insegno all’università, grafica e comunicazione. Da 47 anni.
Ho un’idea di te:
che nel tuo sangue,
nelle tue vene ci sia
ancora qualcosa
della Beat Generation.
Questo è vero perché negli anni Sessanta, con la guerra in Vietnam, con i capelloni come si dice, c’era un’atmosfera interessante, vivace, social unrest, forte conflittualità sociale, che mi ha insegnato molto. Nel ’67 stavo ancora studiando (mi sono laureato in disegno grafico) e non sono andato in Vietnam, mi hanno lasciato in pace, perché ero sposato e andavo all’università e non sono partito. Ho avuto due amici che sono partiti e sono stati uccisi. Uno si chiamava Antonio Bertolucci e l’altro Maurizio,
che lavorava con me: dopo tre settimane abbiamo avuto la notizia che
era stato ucciso. Fu proprio una guerra disgraziata e la tragedia fu che Nixon durante la campagna elettorale disse che avrebbe fermato la guerra, e invece l’ha continuata per quattro anni. Soldi buttati a mare. Come in Iraq. Johnson aveva già mandato mezzo milione di soldati; e Nixon contro Humphrey, il candidato democratico, aveva promesso… ma fece il contrario.
Sei democratico o lib-repubblicano?
Indipendente. I due partiti? Sono uguali. Si vota sempre per chi fa meno danni. L’America sta diventando adesso peggio di qua. Questo maronne di Trump fa paura perché non ha esperienza, è proprio uno showman, è razzista, contro messicani e musulmani: lui ha i soldi. Mi meraviglio che il partito lo supporti. Prima c’era un movimento contro di lui, ma visto che ha vinto con il sostegno popolare, perché il popolo è insoddisfatto della politica, allora il partito ha cambiato idea su di lui. Lui dice che farà di nuovo grande l’America, ma sono parole vuote. Non mi piace proprio.
Quanti figli hai?
Cinque figli. Vivono in Nord America e ogni due o tre anni vengono qua a Ischia. Il grande si chiama Marcovito, poi Mariella, Franca, Angelica e Anthony. Mia moglie si chiama Maria Rosa Lombardi: è di Casamicciola.
Ti senti un americano di Brooklyn, italiano d’America, un foriano americano, o cosa?
Mi sento un essere umano nel mondo. Ma sono più foriano… Se avessi abbastanza soldi me ne verrei qua, per scialare sulla spiaggia… Scusa la mia lingua taliana… Vivo a Brooklyn da sempre, sto a New York, sono cresciuto lì. Sono brooklinese, insomma.
Ci sta sempre quello che vende le galline, i conigli?
C’era! Mi ricordo quando siamo arrivati
ancora c’era. Queste sono specialità indipendenti, e le ditte grandi le hanno levate di mezzo. Non esistono più quei piccoli negozi. Io lavoro a New York, a scuola, ma Brooklyn è un po’ più country; a New York ci sono solo uffici e grattacieli. A Brooklyn le case sono più basse, è più spianato. Un po’ meglio. È meno soffocante, certo, ma ci sono quattro milioni di persone. A New York, otto.
La passione quando è nata, da ragazzo?
Quando ero bambino e guardavo i vestiti, anche dei monaci… apprezzavo i loro abiti in senso artistico. Ma lo sai che pensavo di diventare un monaco? Dopo ho scoperto le donne ed è finita la carriera!
Sono il dodicesimo di tredici figli.
E quindi il prete in una famiglia così numerosa poteva starci, andava così.
Io pensavo di poter fare le confessioni a tutte le donne!
C’è erotismo nel tuo lavoro?
Mi piace, certo, forse c’è in modo accennato. Ma c’è anche tanto humour. È interessante ascoltare chi osserva il mio lavoro, cosa vede: è la prima volta che sento erotismo. Va bene.
Hai scoperto le donne, e poi?
Ti posso raccontare una storiella? Andavo a scuola dalle parti del Soccorso, e la maestra era molto cattiva, tirava le orecchie. Una mattina mi fece una domanda, io risposi, ma lei disse che non avevo risposto bene. Mi ordinò di scendere giù nel piazzale per punizione: dovevo salutare la bandiera per quindici minuti. E io scesi, davanti alla bandiera: dovevo stare sull’attenti, ma vidi una finestra dove c’era una donna che spanneva ‘e panne: un reggicalze, un gigante reggiseno, così grandeeee, e una sottanina. Poi questa donna aprì tutte le finestre e uscì fuori, maronne… e io stavo in attenzione, anche il pistolino si mise in attenzione per la verità, maronne… e salutavo anche la roba che metteva fuori, e lei si mise a ridere, senza provare scuorno, niente… Avevo nove anni. Poi tre mesi dopo andai in America, e all’inizio era un po’ difficile perché la lingua non la sapevo.
Più tardi sono andato a lavorare, là subito si deve lavorare per portare qualcosa a casa, in una salumeria, dove affettavo i prosciutti, avevo dodici anni, e stavo dietro al bancone. Poi ho visto uno di fianco a me che aveva 40 anni e faceva sempre le stesse cose. Ho lavorato fino alle scuole alte, high school… ma guardando a quello che aveva 40 anni, mi sono detto che non potevo fare come lui. Così mi sono iscritto al programma di disegno di arte all’università, perché l’arte mi piaceva già da quando frequentavo le superiori: facevamo i poster, sapevo di non essere Picasso, ma… Ricordo la prima classe: si chiamava “life drawning”, disegno dal vero. La prima sera vidi che c’erano le modelle nude, completamente nude! E, da allora in poi, ho preso una decisione definitiva: ho detto “questo è un mestiere buono qua!”. Ho schizzato il petto di una modella come una palla, che è semplice da farsi. Il professore venne vicino e disse: “Bravo,vai bene, cammina avanti”. Poi tornai a casa e mia madre mi chiese: “Ma cosa stai studiando a scuola, cosa stai imparando?”. Le ho fatto vedere… E mi rifilò uno schiaffo che mi fece uscire le lacrime dagli occhi: “Ma ti stiamo mandando al College per fare le schifezze?”. Mamma era una contadina, si chiamava Marianna. “Ma’, questa è arte!”, provai a farle capire. “Arte?”, replicò, e disse una parolaccia: “Questa è schifezza!”. Mio padre invece, guardava: “Vai avanti, vai avanti”. E adesso eccomi qua.
C’è un tuo autoritratto con le impronte digitali sugli occhi: è un double self portrait?
Si. Un’idea… La scuola ha dato un assegno agli insegnanti per fare un pezzo da esporre nella galleria universitaria. È un autoritratto e anche un ritratto, a me piace dare un po’ di concettualità sottile…
Il lavoro sui font quando è cominciato?
Sono stato fortunato. Finita l’università, sono andato a lavorare da uno dei migliori artisti grafici al mondo. Si chiamava Herb Lubalin, era molto noto, faceva qualsiasi cosa: c’era da disegnare una lava? Disegnava una lava. Aveva una grande reputazione. Era molto famoso per la creazione di caratteri di tipografia e ci sono molti typefaces che lui ha inventato, come AvantGard. Anch’io ho disegnato diversi typefaces, come Serif Gotich. Per me ne ho fatti due dozzine. Dieci anni fa ho sviluppato, con un socio, un piccolo studio: io li disegno e lui li mette in digitale. Spero alla fine di quest’anno di lanciarli a livello internazionale.
Si guadagna bene?
È uno sfizio. Dipende se il typeface ha successo, se la gente li usa. Non puoi cullarti sugli allori. Sono un solutore di problemi nel disegno della comunicazione: questo ho studiato e questo insegno. So fare qualunque cosa, posso disegnare qualunque cosa. Una chiesa? Ok. Ho fatto poster, copertine di libri, sono specializzato in branding, design symbols, caratteri tipografici, qualsiasi cosa di comunicazione; tra letterale, radio, tv, tutto ciò che è visuale. Chi sono i nostri clienti? Quelli che hanno un problema e vogliono fare pubblicità, hanno un prodotto o un servizio da promozionare e hanno bisogno di uno specialista che sa quello che si deve fare. Il guaio, e lo è anche sull’isola, è che quando uno deve fare una promozione non va dagli specialisti come noi, ma sai dove va? Va in tipografia! Assurdo.
Cosa è cambiato con il computer?
Il computer è come la stampa di Gutemberg, porta il mondo a dimensioni davvero di un villaggio come diceva Mc Luhan. Devi pensare che spiego agli studenti che c’erano il ciuccio e la carretta, anche la mia famiglia li aveva, prima di radio e tv. La gente che cresce con il computer pensa che il mondo è nato con il computer, non pensano che le meravigliose invenzioni del 20mo secolo vanno apprezzate. Il computer è pervasivo, ha portato un cambiamento enorme, e c’è il buono e il male. Il male cos’è? Si perde la manualità, handcraft. Il cliente vede il computer e pensa sia tutto semplice. Tu gli chiedi “quando ti serve” e lui risponde: “ieri!”. Non sa che ci sono giorni di lavoro. Il computer non pensa, non ha idee. Mi sento anche un po’ illustratore, ma non è il mio mestiere. E se mi chiedono le vignette, faccio anche quelle. Ma è lo stile dei miei caratteri ciò che mi ha fatto conoscere dappertutto, e che si è evoluto dopo la frequentazione con Lubalin. Ci sono solo sei persone al mondo che lo sanno fare.
Quando diventerai, adulto, tra venti anni, cosa farai?
Voglio aprire una casa di tolleranza, ah, ah, ah!! Ma dovrei imparare… Ad Amsterdam non ci sono mai stato…
A parte gli scherzi, intanto, giri un po’ per il mondo, per insegnare.
Abbastanza. Ho tenuto letture magistrali a Londra, in Australia, Turchia, e quando mi invitano faccio workshop. Ma molto spesso questo accade negli Stati Uniti.
Sei un eterno ragazzo di Forio?
Questo è il peccato dell’uomo, se restassimo bambini, ci sarebbe più pace al mondo.
Cosa non ti piace di Forio?
Forio mi piace! Non mi piacciono alcuni dei… vicini.