L'isola del Grand Tour
La traversata verso l’isola era il primo, vero contatto con il mare. L’avevano sempre osservato al sicuro sulla terraferma, vagheggiando quei lembi di terra che si stagliavano sull’orizzonte. E a Napoli, nei salotti dove si scambiavano racconti e ricordi, l’esplorazione di quelle terre immerse nell’azzurro era sempre raccomandata da chi già ne aveva avuto il privilegio.
E magari non aspettava altro che una nuova comitiva di simpatici conoscenti per potervi ritornare. Certo, il viaggio era lungo e non privo di disagi, ma al piacere della scoperta si accompagnava naturalmente lo spirito d’avventura richiesto per affrontare quella nuova esperienza, carica di incognite, ma anche di promesse. Di solito, la buona stagione metteva al riparo almeno dai rischi della navigazione. Limitata al minimo, imbarcandosi lungo la costa, affichè il tratto di mare da coprire fosse il più breve. Con il vantaggio di potersi soffermare prima nei luoghi tanto decantati della costa flegrea.
Pozzuoli, Cuma e il lago d’Averno erano il prologo ineludibile del viaggio nel mito. Che offriva il piacere di trovarsi al cospetto di quanto si era solo immaginato leggendo e studiando, e senza restarne delusi. Il senso del Grand Tour in Italia. Ma, dopo tanta meraviglia, cos’altro mai avrebbero potuto riservare quelle terre in lontananza, al di là del mare?
Le feluche attendevano a Baia o a Miniscola, davanti alle isole. Primo scalo a Procida, giusto il tempo di rifocillarsi e di andarsi a imbarcare di nuovo alla Chiaiolella, sul lato che guarda Ischia. Da lì, al borgo sotto il Castello si arrivava con la barca a remi, altrimenti era ancora la vela a condurli a Casamicciola o a Lacco. Dove tutti erano diretti, giacchè là si trovavano gli alloggi per i forestieri. A meno che non fossero membri della Casa reale o ambasciatori stranieri, nel qual caso erano aperte per loro le porte della splendida villa di campagna che il protomedico di corte Francesco Buonocore, nativo dell’isola, aveva costruito sull’altura dietro il lago costiero, tra il Borgo d’Ischia e Casamicciola. Vicino a due sorgenti di acqua minerale, che assicuravano ai ricchi e potenti ospiti del medico dei Borbone le cure termali in casa, durante i piacevoli ozi ischitani.
Proprio le numerose sorgenti termali e le emissioni calde e benefiche dovute alla sua genesi vulcanica avevano condotto a Ischia i viaggiatori dalla fine del ‘500. Per primi, studiosi stranieri che, constatata la fondatezza dell’antica fama di quelle acque, si erano incaricati di farla conoscere al di là del mare. Così, in seguito, erano iniziati i soggiorni per cura o anche solo per diletto, man mano che si diffondevano le notizie sulla bellezza dei luoghi in cui erano incastonate le fonti termali. Appunti di viaggio e lettere erano il veicolo promozionale del tempo, insieme ai racconti dei visitatori che, prima e dopo Ischia, si fermavano a Napoli, tappa fondamentale del Grand Tour. E agli inizi del ‘700, un accurato e appassionato reportage del filosofo inglese George Berkeley, che aveva avuto ampia risonanza in Europa, aveva seminato tra i lettori il desiderio di visitare quell’isola “epitome del mondo”.
Il disagevole viaggio per mare rendeva impensabile andare e tornare nella stessa giornata. E per un ciclo di cure termali servivano almeno tre settimane. Ischia non era per visite brevi e per fortuna la multiformità dei paesaggi era in grado di soddisfare ogni giorno il desiderio di novità degli ospiti stranieri. Che dai terrazzi delle loro case, molto umili e spartane, ammiravano panorami in grado di ripagare ogni privazione.
Berkeley aveva decantato le meraviglie del versante meridionale affacciato sull’orizzonte e della grande spiaggia dei Maronti con l’isolotto di Sant’Angelo e il piccolo borgo di pescatori. Ma la gran parte dei forestieri prendeva casa, invece, sul versante settentrionale, dov’erano gli approdi e le sorgenti termali più note. E dove scoprivano che l’isola offriva, di giorno e di notte, tutto il fascino del golfo di Napoli dominato dal Vesuvio, spaziando nei giorni più favorevoli fino alla costa laziale a nord e alla Penisola Sorrentina a sud, con i monti dell’Appennino sullo sfondo. E da ogni parte si ammiravano le altre isole: le Pontine, nella luce dei tramonti di fuoco di Forio; la verde Vivara e la più grande Procida proprio davanti al Borgo d’Ischia e, dall’altra parte del Castello, l’immagine quasi onirica di Capri. Uno scenario di inaspettata vastità e mutevolezza, descritto in diari, lettere e non di rado disegni, che annullava la sensazione di isolamento naturalmente associata alla vita su un’isola.
A rendere ancora più piacevoli i soggiorni erano le passeggiate nell’interno, tra le colline fasciate da vigne fin nelle zone più impervie. Nonostante le difficoltà che gli spostamenti comportavano, c’erano itinerari che non si potevano ignorare stando a Ischia. La visita all’isolotto spopolato del Castello, con le pittoresche rovine immerse tra i fichi d’India e le viti, era l’occasione per conoscere la storia dell’antica Città d’Ischia, allora già traferita sull’isola grande al di là del ponte di pietra, nel borgo di pescatori che si stava ampliando con la costruzione dei palazzi nobiliari affacciati sul mare. E una vista straordinaria si godeva da Monte Vico, dove si diceva fosse l’antico insediamento greco di cui riemergevano nei vigneti blocchi di pietra e frammenti di ceramiche dipinte. Come era d’obbligo una passeggiata a Forio, con le maestose torri e le belle chiese, dove per la messa domenicale gli abitanti indossavano i costumi variopinti della festa. Senza trascurare i crateri di antiche eruzioni ormai coperti da una vegetazione lussureggiante.
Ma l’escursione irrinunciabile era quella sull’Epomeo. Ore e ore a dorso di mulo, tra fitti boschi di castagni, sull’orlo di precipizi lungo le forre che segnano i fianchi del monte, in un silenzio quasi irreale, per raggiungere la vetta, accompagnati dal monaco eremita ad ammirare lo spettacolo più stupefacente. Soprattutto all’alba e al tramonto, indimenticabile.
Con le sue storie, l’eremita faceva onore agli ospiti insieme al vino fresco, al formaggio delle capre della montagna, alle erbe e ai frutti profumati, raccolti nell’orto dietro le celle scavate nella pietra verde tipica della cima dominatrice dell’isola, lasciando per ultimo un regalo insperato: il gelato, fatto con la neve raccolta durante l’inverno e conservata nelle apposite fosse che fungevano da ghiacciaie naturali nel resto dell’anno.
La salita all’Epomeo, già da sola, valeva il viaggio. Una sequenza indelebile di immagini da custodire per sempre nella memoria con gli altri ricordi dell’isola accogliente, luminosa, profumata, selvaggia, amena. Un’altra dimensione, oltre quella della vita cittadina pronta a riprendere il sopravvento appena giunti al di là del mare. Con il desiderio di tornare, prima o poi. Espresso in versi da re Ludwig di Baviera: “Corri a Ischia. Lontano dal frastuono della vita, là troverai quella pace che da tempo ti è sfuggita via”…
Di Isabella Marino