La mia Festa di Sant'Anna
Ogni anno, nel pomeriggio del 26 luglio, Aniellantonio Mascolo, con l’aiuto di un paio di ragazzi, sistemava i “cuppetielli” sugli scogli di Sant’Anna. Sì, proprio lui, forse l’esponente più importante della nostra tradizione artistica. Prima ancora che Christo impacchettasse monumenti e srotolasse tappeti sui laghi, il “nostro” Aniellantonio con un gesto, che oggi per fare impressione in certi ambienti si direbbe “performativo”, trasformava i luoghi: disegnava geometrie facendo emergere, nel tempo straordinario della Festa, quell’insieme di relazioni, simmetrie, direttrici, segni, che la Storia e la Natura hanno in parte cancellato e che lo sguardo pigro dell’osservatore quotidianamente fatica a scorgere.
Sono stati davvero bravi i nostri nonni. Non studiavano marketing, sapevano poco o nulla di flussi turistici, ignoravano l’ABC della comunicazione. Eppure hanno inventato la Festa, hanno “inventato” la nostra identità, perché - è inutile nasconderlo-, l’identità, la si perde e la si ritrova, ma è sempre una forma di autorappresentazione, è uno specchio liquido in cui riflettersi con il rischio di cadervi per eccesso di narcisismo. E lo hanno fatto tessendo in una trama a maglie larghe i fili di diverse tradizioni: la consuetudine di accendere i fuochi per celebrare i riti di passaggio, la processione per mare, il pranzo consumato sui gozzi, l’uso di addobbare le imbarcazioni, la magia della pesca notturna e, con il trascorrere degli anni, persino la paura di non esserci più.
L’incendio del Castello è, infatti, l’ultima vera “invenzione” nella messinscena della Festa. I più credono che esso sia la simulazione di uno dei tanti attacchi pirateschi di cui si nutre la mitologia cotta e mangiata a uso e consumo del turista, e in parte è così. Ma lo sforzo di chiedersi cosa rappresenti lo scoglio, quale sia il rapporto che gli Ischitani hanno avuto e hanno ancora con la cittadella “abbandonata”, a tal punto che quando nelle mattinate di nebbia il Castello scompare alla vista, ci coglie un senso di profondo smarrimento, è difficile da compiersi: è un’impresa non da poco mettere in discussione la cartolina. E invece l’incendio del Castello, che nell’edizione curata da me nel 2014 chiudeva la manifestazione, ci affascina e ci rapisce fino alle lacrime perché realizza nei confini dell’esperienza “estetica” una paura, il sublime di una paura che fu dei nostri padri e che riconosciamo ancora come nostra: veder bruciare il simbolo per eccellenza di quel che siamo e siamo stati. Roba forte!
Oggi la preoccupazione principale di chi organizza la Festa è lo spettacolo pirotecnico. La botta, il calibro, la durata dei fuochi, la visibilità degli stessi, soprattutto per i turisti che, nell’idea pervicace dell’ultima generazione di guru della comunicazione, non possono mescolarsi alla folla sugli scogli o per le stradine del Borgo di Celsa. Fuochi bellissimi, per carità, ma che non hanno alcun rapporto con i luoghi, alcun rapporto con la Festa, che non raccontano nulla, che diventano l’ennesima versione patinata della carta da parati con cui foderiamo la nostra “cameretta” per accogliere gli ospiti.
Questa è la mia versione della Festa; ce ne sono mille altre, tutte altrettanto legittime, perché un altro mito che si fa fatica a spazzare via è l’intoccabilità della tradizione, come se questa si fosse cristallizzata per sempre in tutti i suoi aspetti fin dall’origine. Nulla di più falso. La festa è cambiata sempre, di anno in anno, anche radicalmente. E chi dice: si è sempre fatto così, pecca d’ingenuità, o di orgoglio, rapportando la tradizione alla propria età anagrafica: poca cosa, per quanto la veneranda età sia rispettabile.
Viva la Festa di Sant’Anna! Viva noi!